La pace lacera il campo progressista

Con la manifestazione contro il riarmo, da Conte un’«opa» sul centrosinistra
La manifestazione per la pace a Roma
La manifestazione per la pace a Roma
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La manifestazione per la pace promossa da Conte ha visto presenti i rappresentanti di molti modi di intendere il pacifismo: uno, minoritario in piazza, che è di matrice cattolica ma in parte anche laica (affonda le sue radici nel tempo ed è stato rappresentato nel Novecento da Capitini e La Pira) e che potremmo definire «pacifismo integrale ed etico»; un altro, che è ai limiti fra il politico e l’impolitico, che è inteso come ideologia (praticamente quello dei gruppi di sinistra come Avs) e come modo di porsi non negoziabile; un altro ancora, infine, che è strumento di una manovra politica tesa a catturare l’elettorato «di frontiera» del Pd e a stabilire – attraverso questo tema – un’egemonia sul «campo progressista» che sia funzionale all’affermazione della leadership del capo pentastellato sulla coalizione di opposizione (con conseguente sottomissione del Pd).

Quest’ultimo atteggiamento, populista e opportunistico, va a coprire uno spazio politico che a destra è presidiato dalla Lega (oggi come mai i gialloverdi si somigliano, in politica estera, su Europa, pace, atteggiamento verso l’Ucraina, gli Usa, la Russia) e che a sinistra ha solo Avs a rappresentarlo. Lo stesso Conte che, quando era al governo – secondo il sito di fact checking «Pagella politica» – ribadì l’impegno con la Nato per portare al 2% del Pil le spese militari italiane. Quella piazza voleva la pace: nessuno lo discute. Si può invece argomentare sui mezzi e sui concreti risultati di certe ricette, ma questo è normale, in democrazia.

Detto dunque che l’iniziativa è stata utile perché ha portato ad esprimersi varie anime del movimento pacifista e offerto un contributo al dibattito, resta però la parte politica, cioè lo scopo (voluto o non voluto) che il M5s ha ottenuto. La linea di politica estera dei pentastellati sembra diventata uno dei principali temi non negoziabili per un’alleanza col M5s.

Così, mentre tempo fa Calenda si era autoescluso dal «campo progressista» dicendo (in modo un po’ forte) di non voler avere a che fare con gli ex grillini, oggi Conte pone la sua candidatura non solo alla leadership dell’area a sinistra del Pd, ma lancia un’Opa sull’intero centrosinistra, obbligando la Schlein (che vorrebbe a tutti i costi un patto con i pentastellati, ma ha mezzo partito e mezzo elettorato che non tollerano le posizioni del M5s sull’Ucraina, sull’Europa e sulla difesa) all’ennesimo balletto.

Infatti, la segretaria del Pd non è andata alla manifestazione, ma ha mandato una delegazione formata dai più vicini al M5s: in pratica, la versione del morettiano «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente»? Il risultato è che oggi il campo progressista o campo largo è in frantumi perché, se include Conte deve accettare la sua leadership valoriale che poi porta all’inevitabile candidatura a Palazzo Chigi, ma se include Calenda esclude Conte. In questo sfacelo, che ora non è solo dettato da ragioni politiche ed elettorali ma si ammanta anche di motivazioni ideali e di linee ben precise e divergenti di politica estera, l’unica a trarne vantaggio è la Meloni.

Tuttavia, anche la premier deve stare attenta a queste sempre maggiori convergenze gialloverdi: è vero che oggi Lega e M5s non hanno più il 50% dei voti come nel 2018 ma appena il 20%, però su Ucraina, Europa e difesa c’è oggi un cuneo profondo nella sinistra come c’è nella destra di governo. Il tutto non promette bene, per l’evoluzione del quadro politico.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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