L’Italia e la difesa che non c’è, smantellata anno dopo anno

Dagli anni Novanta si è ritenuto che fossero sufficienti apparati adatti a operazioni di peace-keeping o poco più, in scenari in cui «dall’altra parte» non c’erano eserciti regolari. Ma non è andata come ci si augurava
Soldati italiani durante un'esercitazione - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Soldati italiani durante un'esercitazione - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Le dichiarazioni del ministro Crosetto sull’impossibilità dell’Italia di difendersi dall’attacco di un aggressore ben strutturato non disegnano certo una novità. Il responsabile della Difesa è stato sin troppo generoso affermando che scontiamo vent’anni di sottofinanziamento dello strumento militare.

Meno risorse

In realtà è dagli anni ’90, dopo la caduta del Muro, che è iniziato lo smantellamento delle Forze armate italiane in ossequio al «dividendo della pace», in base al quale si è andati sempre più ritenendo che fossero sufficienti apparati adatti a operazioni di peace-keeping o poco più, in scenari in cui «dall’altra parte» non c’erano eserciti regolari. E ciò in base all’assunto che, in ogni caso, c’era sempre l’ombrello Usa a scongiurare la tempesta. Ma non è andata come ci si augurava. I conflitti nel mondo che nel 1989 erano 86 sono diventati 184 nel 2025 con un numero di vittime che va, a seconda delle stime, da 4 a 6 milioni: nelle missioni «di pace» nello stesso lasso di tempo sono morti 146 soldati italiani e nel 2023 il nostro Paese impegnava in 43 missioni ben 11.520 militari, dal Libano al Niger, al Mediterraneo al Golfo di Aden, ai confini orientali dell’Europa.

Crosetto con il Capo di stato maggiore Luciano Portolano - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Crosetto con il Capo di stato maggiore Luciano Portolano - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

I nostri militari sono da sempre quelli meglio accolti in ogni teatro per l’empatia dimostrata con le popolazioni locali. Ma questo lato positivo ha sempre avuto il contraltare che per poter svolgere questi compiti si è tagliato con la scure per decenni su addestramento, scorte, manutenzione e rinnovo dei mezzi e si sono trascurati settori drammaticamente vitali, a cominciare dalle difese antiaeree, mantenuti al minimo giusto per non perdere know how. Non servono «cahier de doléances», sono lunghi e noti (specie tra chi studia la materia, assai meno nella classe politica, che «ragiona» solo per spot alla ricerca del consenso elettorale). La guerra in Ucraina ha rivelato che il re è nudo: il materiale fornito a Kiev soprattutto nei primi due anni ha esaurito le nostre quasi inesistenti scorte e ha intaccato le risicate dotazioni in campi fondamentali come la citata difesa antiaerea. La rivoluzione sul campo prodotta dai droni ci pone poi (come altri) in ulteriore difficoltà (o quanto meno in affannosa rincorsa) perché sinora i mezzi a pilotaggio remoto o autonomo erano visti come strumenti di ricognizione o al più per azioni di attacco specializzate.

Ridurre il divario

Non è possibile fare miracoli: recuperare il gap richiederà anni e ingenti risorse (anche perché l’industria occidentale della difesa è privata e deve fare utili, a differenza di quella russa o cinese che può approvvigionarsi e produrre a prezzo di costo, in ossequio alle mire dello Stato). L’Italia non naviga nell’oro e dedica non più dell’1,5% del Pil alla Difesa (le alchimie per dimostrare che spendiamo il 2% considerano anche pensioni, Guardia costiera, Guardia di finanza...). Ma va anche considerata la spesa pro capite: la spesa militare per abitante è di 586 dollari in Italia, contro i 2.440 degli Usa, i 2.095 della Norvegia, i 1.096 della Germania, i 926 della Francia e i 686 della Grecia.

In questi giorni Roma ha formalizzato la richiesta di accesso al fondo SafE (Security action for Europe) per 14,9 miliardi: prestito che conta su dieci anni di «grazia» e potrà essere restituito in 45 anni a tassi di favore. Serviranno a programmi di acquisizione congiunti con almeno due partner europei o uno più l’Ucraina. Il SafE darà respiro alla Difesa, ma rimangono problemi come l’invecchiamento del personale (oggi nell’Esercito l’età media è di 43 anni), la carenza di poligoni addestrativi, le lungaggini dei programmi. Non servono miracoli, basterebbe finalmente chiedersi qual è la difesa che ci serve (non c’è solo l’«Orso» russo, anche nel Mediterraneo i competitori non mancano) e a quella puntare, magari snellendo lo strumento militare, dotandolo però di maggiore «letalità».

Un Tornado in uso alla base di Ghedi - © www.giornaledibrescia.it
Un Tornado in uso alla base di Ghedi - © www.giornaledibrescia.it

Il sondaggio

Con buona pace di quell’84% di italiani tra i 18 e i 45 anni (lo rivela il Censis, luglio 2025) che non combatterebbe per il proprio Paese: il 39% si dichiara pacifista, il 26% vuole appaltare la difesa a professionisti, il 19% fuggirebbe per evitare l’arruolamento. Per il 65% degli intervistati saremmo travolti da qualunque ipotetico nemico e per il 31% potremmo essere coinvolti in un conflitto entro cinque anni. Ma solo il 26% è d’accordo su maggiori spese per la Difesa, mentre il 58% è favorevole a «un sistema di difesa europeo integrato»: opzione irrealizzabile nel concreto senza unità politica e al di fuori della Nato e sicuramente foriera di ulteriori spese. Quanto a parole, come sempre, siamo imbattibili.

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