I partiti e il nodo irrisolto della democrazia interna

Nel 2026 l’Italia festeggerà due ricorrenze importanti: il 165° avversario dell’Unità (1861) e l’ottantesimo della Repubblica (1946). La durata di quest’ultima (80) si avvicina sempre più a quella del Regno d’Italia (85). In questi 165 anni il nostro sistema politico ha attraversato quattro epoche.
Il notabilato dell’età liberale (1861-1922) caratterizzato da partiti solo elettorali, da una base di aventi diritto al voto ristretta, ma dal pluralismo (prima moderato, poi crescente e maturo) della stampa e delle opinioni politiche (in questo periodo i governi erano fatti e disfatti da pochi esponenti politici, che però non avevano strutture alle spalle; non c’era nemmeno – al di là del nominalismo – una vera nettissima divisione fra destra e sinistra come la intendiamo oggi; c’era però una classe dirigente di livello).
Poi il fascismo (1922-1945) caratterizzato dalla dittatura di un solo uomo, dall’abolizione degli altri partiti, dall’assoggettamento della stampa e delle libertà pubbliche e private al volere del regime (una monocrazia la cui classe dirigente era fatta esclusivamente di accoliti e fedeli del capo, finché non cadevano in disgrazia e venivano emarginati).
La terza epoca, quella della partitocrazia (1946-1994), si afferma già ai tempi della Costituente, è caratterizzata dal pieno pluralismo politico e dalle libertà di stampa, opinione, associazione in partiti, ma che è in qualche modo sottoposta al volere delle classi dirigenti dei soggetti politici, che esercitano di fatto il potere su istituzioni ed enti pubblici (va detto che in questa fase il potere è sempre plurale, cioè al vertice non ci sono quasi mai capi partito ma sempre gruppi dirigenti che attuano al loro interno un certo ricambio, in una sorta di «notabilato democratico» che permette anche un rapporto con la base dei milioni di iscritti ai partiti, anche se l’ultima parola spetta quasi sempre ai vertici); la fase attuale (dal 1994) è invece simile alla precedente, ma la possiamo definire «leadercrazia», perché al potere delle classi dirigenti (oggi rappresentate quasi solo da esponenti dei «cerchi magici» dei leader) si sostituisce il dominio di un capo partito che detta la linea (naturalmente, il tutto nell’ambito di un regime democratico) ma che estende talvolta il suo potere sulla scelta delle persone da candidare alle elezioni nelle liste del proprio partito, oltre alla scelta dei ministri e al dominio sui gruppi parlamentari (non è un caso che, rispetto alla Prima Repubblica partitocratica, la Seconda leadercratica non veda quasi mai la figura dei segretari dei partiti - ai quali di solito si affiancavano presidenti con poteri simbolici - ma di solito i leader sono anche presidenti, realizzando ciò che Mauro Calise ha definito «il partito personale» e Fabio Bordignon «il partito del Capo»).
Questa evoluzione spiega anche il recente aumento delle simpatie, fra gli elettori, per l’«uomo solo al comando», che è frutto della centralizzazione e verticalizzazione del potere nei partiti, dunque di una sorta di «presidenzialismo forte» (all’americana o, forse, alla sudamericana) che finisce per dare all’opinione pubblica – anche attraverso una comunicazione non mediata dalla stampa ma imposta via social network dai leader, in un rapporto nel quale gli elettori sono ridotti a semplici followers involontariamente o volontariamente consenzienti - l’idea che è opportuno abolire pesi e contrappesi (cioè le garanzie e i contropoteri, sia nei partiti sia nelle istituzioni) per garantire decisioni più efficaci (non conta che i risultati di questo modo di fare politica siano più apparenti che realmente utili al Paese).
I Padri costituenti elaborarono l’articolo 49 della nostra Carta Fondamentale («Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale») che però è stato sempre interpretato dalla classe politica come un riferimento all’agire «esterno» (cioè al metodo democratico nei rapporti fra partiti) e non alla relazione fra vertici e basi dei soggetti politici. Se molti partiti della Prima repubblica avevano una classe dirigente plurale che assicurava il ricambio delle leadership, facendo prevalere la linea politica e l’ideologia sul resto (è questo il segreto che ha permesso ai partiti di non perdere voti pur cambiando i propri vertici), oggi è il carisma che vince e che si impone su tutto (con cambi di linea anche rapidi e contraddittori, ma accettati in nome della fedeltà al Capo). Non più partiti scalabili (era già difficile prima), non più rapporti verticali biunivoci fra classe dirigente e base, ma neanche più sopravvivenza del partito se il Capo declina.
Ci sono in Italia alcuni soggetti politici che, in mancanza del proprio capo indiscusso, potrebbero perdere buona parte del seguito elettorale (i followers si stancano e, come dimostra l’andamento dei voti negli anni Dieci, cambiano spesso partito, cioè si scelgono un altro capo senza pensarci troppo). Per questo, la valorizzazione dell’articolo 49 della Costituzione che la Prima Repubblica trascurò, è ora necessaria tanto più che la Seconda ha tratti cesaristici che rendono necessaria una ventata di democratizzazione del sistema. L’alternativa è perdere elettori (l’affluenza alle urne, infatti, crolla) e credibilità nelle istituzioni.
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