Elezioni regionali, scontro tra potere centrale e potentati territoriali

Potere centrale e potentati territoriali: la sfida sta giungendo alla fase nevralgica. Ma al di là della crisi congiunturale, emerge una questione strutturale che riguarda l’intero sistema politico italiano. E non basterà usare la leva della legge elettorale per venirne a capo. Il trucco potrà funzionare, forse, nell’immediato, ma ingarbuglierà ancora di più il problema di fondo, la fiducia nella politica.
Veneto, Valle d’Aosta, Toscana, Campania, Marche e Puglia: sei Regioni andranno al voto entro la fine dell’anno. La «finestra» più probabile sembra sia novembre, così almeno fa pensare il pronunciamento del Consiglio di Stato su quello che potremmo definire come un colpo di coda del Covid. Fu infatti a causa della pandemia che queste sei Regioni votarono in autunno e non in primavera, nel 2020. Meno di cento giorni per trovare accordi su un terreno minato e carsico: momenti di tregua si alternano a contese infuocate. Governatori, leader, partiti e coalizioni sono in fibrillazione da tempo. Nessuno escluso.
Luca Zaia e il Veneto, con allegati Massimiliano Fedriga e il Friuli, Vincenzo De Luca e la Campania, Eugenio Giani e la Toscana, ma anche Andrea Decaro in Puglia alle prese con i predecessori Nichi Vendola e Michele Emiliano. Gli scontri sembrano consumarsi attorno a due punti, strettamente connessi: la ricandidatura di Governatori condizionata dal vincolo del terzo mandato e la contesa fra i leader dei partiti con i potentati territoriali. Vi è una questione di potere che riguarda le roccaforti legate ai singoli partiti e alle coalizioni. Al Nord la Lega non vuole cedere neppure un millimetro delle sue posizioni, soprattutto perché intravede un atteggiamento espansionista dei Fratelli d’Italia. Ma anche Forza Italia vuole una sua posizione che non sia sempre subalterna. Il partito di Giorgia Meloni ha ribaltato, per voti raccolti, gli equilibri di cinque anni fa e quindi vuole spazio anche dove prima non esisteva.
Il potere regionale conta ancora molto, anche se l’aria che tira ha ormai rafforzato il potere centrale, al punto che nella raccolta di gradimento non conta neppure più tanto il Governo, che non brilla, quanto il (la) premier che invece sa muoversi con abilità. E Giorgia Meloni cavalca l’onda attuando una sorta di premierato di fatto, a suon di decreti e di voti di fiducia che neutralizzano il Parlamento. L’autonomia differenziata è bloccata, il premierato è in stand by, avere in mano le Regione è strategicamente essenziale per dare stabilità a Palazzo Chigi. Ma fino a quanto Giorgia Meloni può forzare senza mettere in crisi la maggioranza? Fino a quando Salvini e Tajani possono fare resistenza?
Nel campo più o meno largo dell’opposizione, la questione è assai simile: il voto in sei Regioni può dare indicazioni chiare su pesi e leadership, cosa che manda in fibrillazione Giuseppe Conte e M5S, per nulla intenzionati a lasciar spazio a Elly Schlein e Pd. Ne conseguono le reazioni di Azione, Italia Viva e Avs. Si contratta su tutti i tavoli possibili, senza dare nulla per scontato. Ma tutti sanno che divisi si perde. Vi è poi una questione di potere all’interno delle singole forze politiche. Salvini, Schlein, ma anche la stessa Meloni, ciascuno per ragioni diverse, incontrano malumori e resistenze man mano che si allontanano dal loro cerchio magico.
Ed è questo uno dei nodi strutturali della crisi politica italiana: l’incapacità di creare un rapporto coerente fra il centro e il territorio, i vertici e la base. Nella Prima Repubblica, fondata sul sistema proporzionale e le preferenze personali, fra periferia e vertici dei partiti vi erano legami biunivoci, con partecipazione diretta accanto a costruzione diffusa del consenso tramite corpi sociali intermedi. La Seconda Repubblica ha visto invece prevalere la logica dei nominati, dei cooptati, dal partito-azienda berlusconiano o dalla «ditta» diessina.
Ora i nodi vengono al pettine, con la contrapposizione fra i poteri locali (i «cacicchi», come li chiama chi non li sopporta) e i leader al vertice. Finora si è cercato di sciogliere il nodo ricorrendo alle leggi elettorali. Il vincolo dei due mandati a questo in fondo serviva, così come, in direzione opposta, a questo servirebbe concedere il terzo mandato. (Ma perché poi non anche il quarto e il quinto?). Le leggi elettorali finiscono così per essere dei trucchi, degli escamotages per evitare d’affrontare il nodo vero, quello dell’organizzazione delle forze politiche, oggi incapaci di preparare, far crescere e selezionare una classe dirigente, sia a livello territoriale sia al vertice. Ma sarà difficile che partiti retti su cerchi magici e logiche familistiche costruiscano alternative al sistema di nomenklature e slogan. Poi ci si meraviglia che i cittadini disertino le urne.
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