Cercare l’umano oltre le categorie

Il problema nasce nel momento i contenitori finiscono per vivere di vita propria, cannibalizzando il contenuto
Lo sguardo di una persona - © www.giornaledibrescia.it
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Le categorie sono strumenti indispensabili nella vita di tutti i giorni e senza di esse non potremmo comunicare. Quasi tutto il nostro linguaggio pubblico è farcito di categorie che ci aiutano a generalizzare e spesso a contrapporre concetti e valori: pigri, tossici, timidi, prodighi, ignoranti, astemi, cinesi, musulmani... si potrebbe continuare all’infinito.

Sono le parole di tutti i giorni. Le categorie, sia chiaro, non sono invenzioni o fantasie arbitrarie. Alcune di queste, tra l’altro, ci appaiono come veri e propri motori della storia: classe operaia, capitalisti, ceto medio, definizioni di soggetti collettivi che hanno saputo creare profonde consapevolezze in grado di caratterizzare gran parte della contemporaneità.

In un modo o nell’altro, comunque, tutti i contenitori a cui riusciamo a dare un nome esistono in quanto ci permettono di ordinare il disordine plurale del mondo e, dunque, li utilizziamo per orientarci e per costruire le nostre indispensabili logiche sociali.

Il problema nasce nel momento in cui questi contenitori finiscono per vivere di vita propria, cannibalizzando il contenuto, quando cioè perdiamo la consapevolezza che quelle «scatole» sono solo un’utile collettivizzazione organizzata dell’esistente; non sono la realtà, ma solo un tentativo di classificarla, tentativo tra l’altro non certo oggettivo, bensì basato su cultura, tradizioni e condizionamenti, materiali e non, da cui tutti veniamo inevitabilmente influenzati.

Forse, di fronte all’odierna, drammatica, anomia sociale, paradossalmente aggravata dal dilagante individualismo digitale, è giunto il momento di fare mente locale sui meccanismi che ci spingono ad aderire acriticamente al paradigma «categoriale» per provare a restituire centralità ai soggetti che popolano le nostre astrazioni collettive.

Si tratta, in altre parole, come ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio al Meeting di Rimini, di rimettere al centro della sfera pubblica la persona, cioè l’individuo, la cui umanità si realizza in pieno soprattutto nelle relazioni con la comunità. Bisogna impegnarsi a farlo soprattutto perché è ormai evidente come alla base dell’odio e del rancore, nelle relazioni sociali come in quelle internazionali, oggi così diffuso, ci sia anche l’incapacità di vedere l’umano sempre più sommerso nei mille luoghi comuni che si generano, con molta facilità, nelle astrazioni collettive.

È arrivato il momento di rendersi conto di essere ancora impigliati in quello che Max Weber, nel 1920 - rivendicando l’urgenza di capire la società prendendo le mosse dall’agire degli individui - aveva chiamato il «gioco degli spettri» che opera sempre attraverso i concetti collettivi. Come uscire dalla trappola? L’impresa non è affatto semplice dal momento che implica un modo nuovo di guardare il mondo, rinviando la soluzione ad una profondo ripensamento dell’educazione scolastica. Ci vorrebbero, insomma, meno astrazioni identitarie e più consapevolezza della centralità del ruolo degli emozionanti sguardi umani, veicolo indispensabile per ogni forma di riconoscimento senza il quale concordia e pace rimarranno sempre utopie.

Insegnare l’umano, dunque. Un’operazione, questa, che ha senso solo se si fa della storia il perno dell’educazione dei cittadini.  la storia, con il suo continuo rinviare ai fatti, agli eventi unici e irripetibili, che ci riporta continuamente al ruolo non surrogabile degli individui, degli uomini e delle donne che prima di scomparire nei gorghi delle necessarie astrazioni, hanno concretamente e individualmente esposto il loro corpo alle incessanti traversie quotidianamente macinate dal mulino della storia.

Non è un caso che Marc Bloch, uno dei maggiori storici del ‘900, abbia sostenuto che il bravo storico somiglia all'orco della fiaba. «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». È dunque necessario, in primo luogo, sfuggire all’ignoranza che, lo sappiamo, si nutre di tutte le forme superficiali di rassicuranti astrazioni.

Come ha scritto Hegel, oltre due secoli fa, è proprio «l’uomo incolto a pensare astrattamente. Per lui l’assassino che sale al patibolo è solo un assassino: la sua umanità, la sua storia persino il suo aspetto fisico ovvero la concretezza dell’individuo scompaiono e la sua complessità viene ridotta alla piattezza monodimensionale dell’astrazione». A questa tossica superficialità semplificatrice bisogna saper contrapporre il pensiero critico, dove pluralità e distinzioni rappresentano il vero, indispensabile, antidoto ad ogni potere autoritario.

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