Biden e i passi indietro mai voluti ma subiti

La minaccia o il rischio di perdere la propria influenza esasperano i tratti di quella che potremmo chiamare l’«egopolitica»: ecco perché le dimissioni non sono mai volute
Niente bis per Joe Biden - Foto Ansa/Afp © www.giornaledibrescia.it
Niente bis per Joe Biden - Foto Ansa/Afp © www.giornaledibrescia.it
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«Fenomenologia del passo di lato» in politica. Un passaggio - e, talvolta, un intero percorso - assai sofferto e complicato, su cui viene logico interrogarsi dopo la decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla corsa delle presidenziali.

Una «non scelta» obtorto collo (o una scelta obbligata, e le due cose tendenzialmente si equivalgono) vissuta molto male dal presidente incumbent, la cui rabbia e il cui dolore - stando ai retroscena di tantissimi media, a partire naturalmente da quelli d’Oltreoceano - sarebbero a livelli massimi. La ferita e la lacerazione sul piano personale sono indiscutibili, e la sofferenza «umana, troppo umana» di Biden si rivela naturalmente comprensibile. Anche perché, nelle drammatiche riflessioni del presidente (nelle parti di lucidità della giornata) faranno sicuramente capolino a più riprese le rivendicazioni dell’operato e delle azioni compiute. Al cui riguardo, va ribadito una volta di più, il bilancio della presidenza dell’ex n. 2 di Barack Obama - nei cui confronti è cresciuto il rancore da parte sua - è stato significativo, e ha interpretato una posizione decisamente progressista e pro-labour.

Quella che gli è valsa l’appoggio, fino alla scelta del ritiro, dell’ala sinistra dei democratici, da Bernie Sanders ad Alexandria Ocasio-Cortez, proprio per l’attenzione a varie questioni sociali (oltre che per un calcolo di «politica politicante» che puntava all’ulteriore radicalizzazione della società Usa e, pertanto, a un aumento del proprio peso dopo la prevedibile sconfitta di Biden contro Donald Trump).

La politica e, più in generale, tutti i sistemi sociali collettivi che contemplano la preminenza della leadership risultano fortemente orientati e condizionati dalla psicologia individuale, necessariamente e strutturalmente colma di ambizioni personali, e talvolta perfino (drammaticamente) superomistica come per il tycoon ed ex presidente repubblicano. Dall’ego incerto e debordante di chi comanda, difatti, nascono quei tormenti e dubbi del potere - fino alle loro estreme conseguenze - che William Shakespeare ha scolpito nelle sue opere immortali (con una certa predisposizione granguignolesca, si può aggiungere).

Proprio la minaccia o il rischio di perdere la propria influenza esasperano i tratti di quella che potremmo chiamare l’«egopolitica», la dilatazione del proprio io che costituisce un connotato genetico del «capo», e il suo tallone d’Achille anche, e innanzitutto, naturalmente per chi risulta investito dalle sue decisioni e lavora insieme a lui. Ecco perché le dimissioni non sono mai volute, ma quasi sempre subite e portano ad attribuire la responsabilità a una serie di congiurati, a meno dell’insorgenza di un rovescio o un problema serio nella salute che impedisce di proseguire il mandato «per via naturale».

Per Joe Biden saranno gli ultimi mesi da presidente degli Stati Uniti - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Per Joe Biden saranno gli ultimi mesi da presidente degli Stati Uniti - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

E neppure in questa fattispecie ci troviamo di fronte ad alcunché di scontato, come ha mostrato proprio la resistenza di un Biden pur in sempre più evidente difficoltà motoria e cognitiva a fare il passo di lato (inevitabile). Ora che lo ha faticosamente compiuto si apre per il Partito democratico uno scenario inedito, nel quale entrano elementi obiettivi e altri immaginari.

Con riferimento al secondo aspetto, infatti, sono state sufficienti le immagini riportate nelle ultime settimane dai media per sgretolare la reputazione del presidente uscente, che non era stato mai davvero indebolito - per portare un esempio rilevante - nemmeno dai travagli vissuti a causa della condotta vergognosa e sconsiderata del figlio secondogenito Hunter. Per quanto riguarda i dati di fatto, esistono dei precedenti di questa situazione, ma mai all’insegna di una tempistica così precipitosa (e potenzialmente rovinosa). Alla fine di marzo del 1968 aveva infatti mollato Lyndon Johnson, in anticipo rispetto alla Convention democratica che si teneva, come avverrà pure il 19 agosto prossimo, a Chicago. Ma il suo ritiro era accaduto mesi prima dell’appuntamento del partito per la designazione del candidato ufficiale alle presidenziali, mentre Biden si sfila (suo malgrado) letteralmente a ridosso di quell’appuntamento essenziale.

Di sicuro, guardando a quanto sta avvenendo negli Stati Uniti risalta la condizione di permanenza invece a vita della larghissima parte del mondo politico italiano, per il quale la parola dimissioni rappresenta il pericolo da scongiurare a ogni costo, qualunque sia l’addebito che viene imputato. E il passo di lato «pacifico» non rientra proprio nel novero delle possibilità per chi vorrebbe eternare la sua presenza al potere (o, per meglio dire, l’occupazione della poltrona). E pure quando, come successo per alcuni leader di sinistra, si è appunto annunciato in pompa magna l’abbandono dalla politica, ecco che la finestra da cui rientrare, dopo essere usciti dalla porta, era sempre spalancata e bell’e pronta…

Massimiliano Panarari - Sociologo della comunicazione all'Università di Modena e Reggio Emilia

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