Green Deal e competitività alleati per non tornare o rimanere indietro

La domanda che in molti si stanno facendo, a Bruxelles così come nel resto d’Europa, è a dir poco fondamentale: l’Unione europea sta retrocedendo sul fronte Green Deal? Un quesito lecito se ci si guarda indietro di qualche anno, quando Frans Timmermans era vicepresidente esecutivo e le scelte ambientali della Commissione erano orientate a una radicalità indigesta a molti, Stati, aziende e persino semplici cittadini. Tanto però è cambiato da allora, a cominciare dalle forze politiche che siedono nell’emiciclo del Parlamento europeo, e qualcosa pare essere mutato anche negli uffici dell’esecutivo a guida von der Leyen. Seppur per il momento solo in intenzioni e non a livello normativo.
Poco o nulla infatti è variato rispetto alla precedente versione della Commissione se si spulciano testi di regolamenti e direttive. Diverso pare invece l’approccio ideale, con parole come «pragmatismo» e «ripensamento» o diciture quale «neutralità tecnologica» che hanno guadagnato sempre più spazio nel discorso pubblico.
Viene da chiedersi il perché di questa inversione di tendenza, pur sempre solo al momento teorica, e le risposte non possono che chiamare in causa la guerra commerciale scatenata da Trump, la crisi energetica, le difficoltà di Paesi traino come la Germania e le tensioni geopolitiche, con il riarmo di sottofondo e l’impatto dirompente dell’intelligenza artificiale. E così facendo la sostenibilità è, o potrebbe essere, sacrificata sull’altare della competitività.
Dove si va
Eppure, e Brescia in questo senso fornisce diversi esempi, i due temi non sono fra loro discordanti. Possono, e anzi devono, andare di pari passo. Solo tramite un’innovazione realmente sostenibile sotto i profili ambientale, sociale, di governance ed economico l’industria continentale può riuscire a competere sui mercati internazionali. Non la quantità e nemmeno forse più la qualità sono i fattori discriminanti del successo. Lo sono i processi, rispettosi dell’ambiente così come delle persone, lo rimangono i prodotti, anch’essi non scissi da questa doppia dimensione green/sociale.
Ecco perché l’Europa deve continuare a seguire la sua strada, tracciata col Green Deal in maniera decisa. Ricalibrazioni sono ben accette ma svolte radicali no: se infatti gli Stati Uniti sotto Trump hanno fatto più di un passo indietro sul fronte della sostenibilità, un’altra grande potenza come la Cina sta in questa direzione accelerando fortemente.
I temi
Le partite aperte sul tavolo di Bruxelles, che ha appena fissato l’obiettivo vincolante di ridurre le emissioni del 90% entro il 2040 grazie all’accordo fra i vari Stati membri (ma non tutti), sono tante. L’ultimo è il Nationally determined contribution (Ndc) per i contributi degli Stati membri in ottemperanza agli Accordi di Parigi. C’è poi tutta la questione industriale ancora aperta, con il Clean industrial deal rivisto nel 2025 che non esaurisce i campi d’intervento. E poi la revisione della Politica agricola comune, dei fondi di coesione e tutta la partita dell’automotive e dello stop dal 2035 dei motori endotermici: in questo senso il 10 dicembre si potrebbero avere grosse novità con la presentazione della proposta legislativa sulla revisione del regolamento sulle emissioni di CO2.
Quindi per provare a rispondere alla domanda iniziale si può dire che l’Europa si trova sul crinale di una montagna: serve prendere decisioni nette, non annaspare tra le richieste e gli interessi particolari, non sacrificando la competitività in nome di una sostenibilità a ogni costo. Ma è pur vero che sarebbe un errore esiziale, persino vitale, fare lo stesso a termini invertiti.
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