«Non cadiamo nel tranello dell’onnipotenza della tecnica»

Attenti all’inganno. L’intelligenza artificiale pone l’uomo nella stessa condizione di Adamo ed Eva nella Genesi, nella tentazione di sentirsi simili a Dio davanti all’albero del bene e del male.
Il rischio è di illudersi d’essere onnipotenti per poi constatare che le macchine sono più efficienti, performanti e veloci di noi. E finire col subordinarci ad esse. Su questa contraddizione il prof. Adriano Fabris, ordinario di Filosofia morale all’Università di Pisa, pone la sfida di costruire una relazione etica fra essere umano e macchina.
Al professore, che oggi alle 18 nella Sala Bevilacqua di via Pace 10, a Brescia, interverrà per la Ccdc sul tema «Riflessioni sull’Intelligenza artificiale», con Giovanni Guida (Università di Brescia) e Silvano Tagliagambe (Università di Sassari) abbiamo rivolto alcune domande.
Lei sostiene che è indispensabile distinguere tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, anzi che è fuorviante attribuire intelligenza alle macchine. Perché?
Il concetto di intelligenza artificiale è una metafora. Venne utilizzato per la prima volta nel 1956 in un seminario al Dartmouth College di Hanover, per presentare in maniera accattivante un programma di ricerca che aveva bisogno di finanziamenti. La definizione uniforma la specifica proceduta usata da programmi capaci di imparare e di modificarsi in relazione all’ambiente esterno all’intelligenza umana, la quale ha capacità assai più vaste e articolate che non seguire una semplice procedura.
È legata all’idea che prestazioni e risultati di certi programmi possano essere scambiati come prestazioni umane, così ipotizzava il Test di Turing. Siamo dunque noi ingannabili ed ingannati, se non cogliamo quanta differenza sta fra i risultati di macchine che seguono procedure e la capacità umana di modificare e mettere in discussione i criteri e i principi stessi sui quali quei programmi sono sviluppati.
L’Ia solleva una questione antropologica. Quale?
Siamo noi che accettiamo di essere ingannati. Perché noi interpretiamo tutto antropomorficamente. Basta pensare a come trattiamo gli animali domestici, o a quello che io chiamo l’effetto Disney, che trasforma un’automobile come il Maggiolino in una persona. Attribuiamo qualità umane a realtà diverse, che magari sono anche più brave di noi a fare certe cose, ma che comunque abbiamo costruito noi.
Ed ecco la contraddizione fra senso di onnipotenza e rischio di subordinazione...
Da una parte ci consideriamo "come" Dio e costruiamo esseri al nostro pari, come il rabbino Leone che nel XVII secolo costruì il Golem, ma poi il mostro sfuggì al suo controllo e distrusse il ghetto di Praga. Ci si illude che le tecnologie ci attribuiscano un potere infinito, e invece in una sorta di contrappasso, sono le entità artificiali che sfuggono alla relazione con chi le vorrebbe controllare. Se cadiamo nell’inganno, succede che ci abbassiamo allo stesso livello delle macchine, come fossimo macchine.
Sta avanzando un nuovo modello di mondo, che pone altri interrogativi?
Rischiamo di subordinarci ad un modello di tipo scientifico e tecnologico che ritiene il bene stia tutto nell’efficienza, la velocità, la quantità. Così perdiamo proprio le competenze che caratterizzano l’essere umano: la capacità di riflettere, di prendere le distanze, di valutare, di essere responsabile delle conseguenze delle proprie azioni, di non essere prigioniero di regole fisse ma di essere unico e originale nella propria creatività e nel cercare nuovi orizzonti.
È indispensabile costruire una relazione etica fra l’essere umano e la macchina?
Sì. E lo si può fare in tre modi. Il primo è caratteristico di chi opera nel settore tecnologico, in modo che inserisca criteri etici nei programmi, per mantenere le macchine sotto il nostro controllo. Il secondo riguarda la nostra capacità di interagire con queste macchine in maniera corretta, cercando di non perdere le nostre capacità peculiari, e impedire che le macchine sostituiscano le persone. Il terzo riguarda una regolamentazione globale per un fenomeno che ha impatti globali. Finora ci sono regole pensate da Stati o dalla Ue, ma mancano criteri e principi comuni.
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