Musica

«Backpackers», il primo album dei Barkee Bay «va ascoltato in viaggio»

Enrico Danesi
Il progetto della band bresciana è stato realizzato on the road in una settimana con tecnici e amici dentro un van attrezzato
Barkee Bay - Foto Giovanni Bonassi
Barkee Bay - Foto Giovanni Bonassi
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È uscito venerdì, per l’etichetta Undamento/Planeta, «Backpackers», il primo album dei Barkee Bay, band bresciana formata da Giulio Barchi, Davide Tarragoni e Gabriele Consiglio.

Undici tracce – un’intro, nove brani e un’outro, tutte in italiano screziato di inglese – che parlano dell’essere giovani senza idealizzare tale stagione della vita, ma per estrarne il più possibile l’autenticità. E dunque guarda a notti in tenda all’ombra delle Dolomiti, all’on the road lungo la costa australiana, a feste improvvisate in un garage di Brescia o a locali mitici che sanno di notti che non vuoi far finire (il Lio Bar), agli abbracci di fine concerto.

In «Backpackers» si palesa un immaginario che non ama conformarsi a tendenze consolidate, ma preferisce connettersi con i luoghi che hanno ispirato (e ispirano) la creatività dei BB, sublimando stati d’animo ed esperienze che definiscono un caos organizzato ma verace, in cui trovano posto sentimenti, legami, dubbi, scoppi, distanze, corse, rincorse, ritorni.

Il conduttore è l’attitudine «Do It Yourself», esplicitata nel brano «DIY» (ne è l’acronimo) che si colloca nella prima parte dell’ellepì, dopo un’altra traccia rivelatrice come «Wild»: una dichiarazione d’intenti che ribadisce il desiderio di fare le cose da soli, senza rete, senza un piano B.

Le sonorità sono fresche, dal respiro internazionale (sebbene echi di Zen Circus riverberino tra le righe, soprattutto nell’uso delle voci), e se pure sfuggono a una classificazione precisa – in virtù di una varietà che fa da contraltare alla compattezza «filosofica» delle liriche – appaiono come una curiosa miscela tra surf rock alla Peach Pit, ballads, elettronica, improvvise escursioni punk e memorie hip hop.

Abbiamo parlato di «Backpackers» con i tre Barkee Bay.

Avete realizzato il disco durante una settimana on the road, con un van attrezzato, coinvolgendo tecnici e amici. Com’è nata l’idea?

A chi ci chiede che genere di musica facciamo, noi rispondiamo che catalogarla non è importante, ma che va ascoltata in viaggio, per capirla fino in fondo. È la conseguenza naturale di tante esperienze collettive e comuni, che hanno contribuito a definire un «environment» che sentiamo nostro, che pare cucito per noi. Ci siamo detti: perché non prendiamo l’emozione che ci accompagna in queste esperienze e che cerchiamo di comunicare attraverso la musica, e la fissiamo durante il viaggio stesso, registrando e realizzando tutti i contenuti per strada, così da essere coerenti fino in fondo con l’anima del nostro sound? «Backpapers» è nato così.

Quando vi presentano, viene sottolineata la diversità di background musicale che vi caratterizza, nonostante siate quasi coetanei (Giulio 25, Davide 27, Gabriele 29 anni). Qual è il punto di sintesi, intorno al quale avete costruito l’avventura musicale comune?

In generale l’idea di musica chitarristica e suonata, al di là della indubbia fascinazione per l’elettronica. Forse il punto d’incontro principale, in termini di ascolti, sono stati gli Strokes e poi gli Smashing Pumpinks. Ma crediamo conti la voglia di confrontarsi, anche partendo da basi differenti, per ottenere buoni risultati.

Molti giovani che vogliono vivere di musica non vedono l’ora di approdare nelle metropoli. Voi andate controcorrente e indicate Brescia come la dimensione ideale...

Ce la teniamo stretta, Brescia. Comporta vantaggi, compresa la vicinanza a Milano, senza doverne pagare il prezzo. È una questione di legami, di riferimenti, con in più la consapevolezza di poter fare musica in un posto ideale, a modo nostro.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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