Cultura

Il Novecento di Giacomo Scanzi: «Un secolo di redenzione»

Il giornalista e docente universitario, già direttore del Giornale di Brescia, presenta il suo romanzo, «L’ultimo inverno del Novecento»
Giacomo Scanzi - © www.giornaledibrescia.it
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«Il Novecento è stato un secolo di redenzione: milioni di coppie hanno redento il mondo amandosi, nonostante le avversità. È stata inoltre l’ultima epoca letteraria, poi non c’è più stata letteratura. Quella del XXI secolo è una letteratura problematica, psichiatrica, sociologica. Le ossessioni sono diventate elementi dirimenti per fare letteratura». Giacomo Scanzi, giornalista e docente universitario, già direttore del Giornale di Brescia, non fa sconti all’attualità, dedicando a quel «Secolo breve» che da storico ha per anni indagato, il suo primo romanzo «L’ultimo inverno del Novecento» (Marcianum press, 18 euro, 196 pagine). Un testo che, sconfinando nella letteratura, esula dai temi della macrostoria, seguendo ed esaltando le individualità delle vite che fanno quotidianamente la storia.

Professor Scanzi, come è nato «L’ultimo inverno del Novecento»?

«Questa storia è nata da tre inneschi narrativi: il primo fa riferimento a un libro che amo, “La porta stretta” di André Gide; il secondo innesco è costituito dai luoghi dove prende vita la trama, anch’essi a me particolarmente cari; infine l’incontro con una persona dalla quale è nato il personaggio di Magda».

Cominciamo dal romanzo di Gide.

«Mi è sempre piaciuta l’idea di dare una vita propria ai personaggi letterari, soprattutto a quelli che nell’opera letteraria non hanno ruoli significativi. Nella “Porta stretta”, alla piccola Alissa, figlia di Juliette, vengono riservate due righe. Io ho immaginato come sarebbe potuta essere la sua vita, facendola nascere nel 1909, anno di pubblicazione del romanzo».

I luoghi?

«A Port Camargue acquistai una vecchia barca. Arrivai in gennaio, proprio come Magda, in un posto che non conoscevo. Non sapevo che mi stavo recando proprio nei luoghi in cui è ambientata parte della storia di Juliette Bucolin e dove nasce la piccola Alissa. E poi dalla mia barca vedevo il profilo di Sète dove ha vissuto ed è sepolto Paul Valery e a un chilometro si trovava l’albergo di Le Grau du Roi dove Hemingway scrisse “Il giardino dell’Eden”. Insomma, ero approdato senza saperlo in un luogo letterario...».

Ha incontrato veramente Magda in Camargue?

«Ho incontrato una persona che mi ha dato lo spunto. Dunque, e cito Josè Saramago, non c’è nulla di più reale delle conseguenze dell’immaginario. Ci sono persone che diventano personaggi senza saperlo, come qualcuno che entra in una fotografia senza esserne consapevole e ce lo ritroviamo negli album di famiglia. Una volta creato, il personaggio ti cammina a fianco. È la magia della letteratura».

Sorprende che lei scriva al femminile. C’è un motivo?

«Il “femminile” è un mistero che mi ha sempre affascinato. E poiché il femminile, per un uomo, costituisce un mistero insondabile che puoi solo contemplare, ho tentato di rendere omaggio a questa dimensione che mi ha sempre accompagnato. Il mio è un omaggio alla donna, a colei che sa ingigantire l’umanità».

«Donna, mistero senza fine bello». Concorda con Gozzano?

«Non v’è dubbio! Ma concordo soprattutto con Paola Borboni che un giorno, interrogata sul suo rapporto con gli uomini, rispose: “Di un uomo, una donna può solo aver pietà”».

Cosa la affascina, invece, di Gide?

«Nel 1923 Gide tenne sei conferenze nel piccolo teatro di Parigi Vieux Colombier. Le sei lezioni riguardavano Dostoevskij. Ecco, io considero Gide il Dostoevskij occidentale che con uno straordinario intreccio di riflessioni svela la totale alterità della nostra humanitas rachitica alla superficie del mondo. In realtà l’opera di Dostoevskij la si può comprendere soltanto se
si è disposti a farsi trascinare negli abissi, a rinunciare al respiro fino a perdere i sensi. A farsi dilaniare dal maligno fino a che qualcuno non accende il lumicino dell’angelo. Nel nero più nero sta la Bellezza, e il mondo si salva solo all’ultimo millesimo di secondo in un’esplosione totale di luce».

Il contrario di un’agiata vita borghese…

«La letteratura di Gide è de-moralizzata, sottratta cioè a quell’assurdo adattamento borghese dell’esperienza cristiana ridotta ai vizi privati e alle pubbliche virtù. Credo ci sia molto di Dostoevskij ne “La porta stretta” in cui l’amore, l’amore umano, diviene innanzitutto un paradosso. Ma ciò che per l’Occidente è paradosso, per l’oriente dostoevskiano è sostanza di realtà, è tremenda e mortale ferita spirituale, che nulla ha di astratto e nemmeno di eccezionale. È lingua mai purificata, linguaggio d’esistenza, coerenza e consistenza naturali tra la parola e la cosa, con ogni annesso e connesso inquinante. È quello che Gide chiama la rappresentazione dell’incubo, la parte più reale della realtà. Quel che per noi è difficile comprendere è che il dualismo razionale, nell’universo dostoevskiano, non ha alcun senso: così l’ateo si uccide per amore di Dio o, come rileva Gide, “mai l’eroe è più vicino all’amore di quando ha appena esagerato il suo odio, e mai è più vicino all’odio di quando ha sentito eccessivamente l’amore”. Quando, anche per un solo istante, l’idea doppia si presenta nella sua veste di razionalità, l’uomo europeo invoca la coerenza mentre l’uomo russo ne è dilaniato. E l’uomo dilaniato è essenzialmente un uomo delittuoso. Gide credo sia l’intellettuale che più si è avvicinato a questa doppiezza. Ed è proprio questo doppio creativo e morale che mi affascina».

Gide non è considerato un «cristiano per bene»…

«Non si dovrebbe considerare alcun autore secondo la categoria del “cristiano” o meno. Categoria troppo grande per essere ridotta ad una banale definizione. Ogni letteratura è in sé “apocalittica”, porta con sé il caldo e il freddo e aborre il tiepido. Inoltre, noi al termine “cristiano” diamo un significato essenzialmente morale. E questo, per il cristianesimo stesso, è mortale. Quindi, ogni letteratura è in sé pre-cristiana, pre-morale, affonda le proprie inquietudini in un universo in cui bene e male non hanno alcun senso, in cui – per dirla con lo scrittore greco Nikos Kazantzakis – ogni legge è il suo contrario».

Le due protagoniste del suo romanzo ricevono linfa vitale dal loro incontro.

«Alissa esce dalla letteratura e incontra la vita, e con essa la figlia che non ha mai avuto. Anche Magda, uscendo dal guscio di una famiglia che pure ama, scopre il sapore della vita. Ed entra nella letteratura. Entrambe, incontrandosi, attraversano la loro porta stretta ed escono dal mondo e dalle sue banalità».

Vedendo «Novecento» nel titolo si potrebbe pensare a qualcosa di diverso rispetto a una storia interpersonale…

«La storia è sempre storia di persone e di relazioni. I drammi collettivi, che noi annotiamo come eventi storici, sono innanzitutto drammi personali, attraversano i rapporti madre e figlio, marito e moglie... Il Novecento è stato un secolo tragico che ha forgiato l’umano e lo ha temperato. Anche l’amore, categoria in sé astratta, nell’esperienza umana, straordinario terreno di redenzione, appartiene alla tragedia in quanto costantemente tenuto d’occhio dalla morte. Nel caso dell’amore puro tra Madame e Magda vi è qualcosa di tipicamente novecentesco. È un amore pacato eppur profondo, senza cuoricini ma pieno di dedizione, eroismo, cose di cui non siamo più capaci. Mi ricorda – pur essendo di natura diversa - quello dei miei genitori, dei miei nonni. Vorrei essere capace di un amore così. Anche la devota Marie è una figura d’amore splendida: percepisce la sua semplicità e così la sua umiltà diventa la sua grandezza in quanto consapevolezza – e cito ancora l’Ulisse di Kazantzakis – di un destino: vivere accanto a qualcuno più grande di te. Questo salva, questo innalza».

Novecento, secolo di redenzione e ultima spiaggia per la letteratura, diceva.

«Le ultime cose significative sull’uomo e sulla donna, sulla loro grandezza e sul loro mistero, sono state scritte nel Novecento. Penso a Gide, ovviamente, ma anche ad altri autori che amo particolarmente: Pavese, Canetti, Fenoglio, Bassani, Pasolini, Camus, Vittorini, Pratolini...».

Adesso, invece?

«Si fa “Letteratura circostante” per citare il bel saggio di Gianluigi Simonetti, cioè psicopatologica, ancorata alle nostre ansie, alla fenomenologia delle nostre malattie nervose, ad un sociologismo inutile quanto irritante».

Cosa non le piace soprattutto dell’epoca attuale?

«Non mi piace “l’euforia nel bel mezzo dell’infelicità” per citare Marcuse. Non mi piacciono gli slittamenti semantici, la riduzione della parola a serva sciocca delle nostre paturnie. Non mi piace l’uniformità, le facce tutte uguali, i sorrisi ammiccanti, le anime baldracche, le frasi fatte, le manine giunte e le faccine degli emoticon, le stupide omelie dei preti quando fanno i sociologi, gli economisti, i politici... o quando parlano del Paradiso come fosse una comune hippy in cui tutti sono ebeti e felici. Per parafrasare Simonetti, spesso propongono un Vangelo “circostante”».

Non mi dirà anche lei: «Questi giovani…»

«Mi piacciono i giovani consapevoli di sé e del proprio posto nel mondo, della propria grandezza, dei propri limiti, del proprio dolore. Mi piacciono i loro desideri e la voglia di toccarli con mano. Ho passato la vita con i giovani nelle aule universitarie. Ne conosco e ne frequento ancora molti. Amo conversare con loro. Talvolta mi cercano ed io ne sono lusingato. Ritengo che oggi i giovani siano traditi. Traditi dalla scuola, dalle istituzioni, dagli adulti. Traditi dalla tecnologia che, anziché liberarli, li ha rinchiusi nella peggior prigione che possa esistere: la solitudine. Baumann li definiva “solitari interconnessi”».

Inneggia anche al martirio e all’ascesi. Cosa la attrae della sofferenza?

«Non mi attrae la sofferenza. Mi attrae l’uomo che soffre in cui vedo il vero volto umano. Solo nella sofferenza emerge la parte bella di noi stessi. Siamo alla radice della letteratura e della poesia. “L’ultimo inverno del Novecento” è dedicato alle mie Alissa. Alcune sono state mie studentesse. Sono loro, con il dolore, con la bellezza dei loro sguardi incantati, con l’umiltà, con la dolcezza della loro esistenza quieta, che mi hanno aiutato a crescere, hanno ingigantito il mio essere uomo. Come vede sto parlando della donna. Solo la donna sa dare senso al dolore, sa trovare le giuste parole per raccontarlo, e dunque sa dare un linguaggio appropriato al gesto d’amore, che un tempo chiamavamo consolazione».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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