Sé, ma la ina dela eza?

Già Dante l’aveva tirata in ballo laddove nella Commedia dice: Già veggia per mezzul perdere o lulla (Inferno, XXVIII, 22). Ovviamente lo faceva nell’illustre volgare fiorentino e non in bresciano classico: «Va bé – direte voi – ma noalter en som tat compagn de prima!».
Che è mai la ina dela eza? La eza (o anche vèza, la veggia di Dante) è la botte, il noto recipiente fatto da doghe di legno in cui si mette il vino (a qualcuno verrebbe bóte, ma sarebbe un brutto prestito dall’italiano). E la ina? Qui vi voglio! La ina (detta anche rezìna) è la… capruggine! Oddio! E che è mai?! Il pluricitato Vocabolario dei Seminaristi dà: intaccatura delle doghe, dentro alla quale si commettono i fondi delle botti; insomma, la scanalatura dove si incastra il fondo della vèza.
Ci dice poi anche il nome dello strumento che serve per fare le ine: l’enzinadùr (da non confondersi con l’enzanadùr, l’attrezzo che serve invece ad incastrare le doghe nei fondi, le lulle dantesche); in italiano fa caprugginatoio. C’è infine anche il verbo che definisce l’azione di preparare le capruggini: inà. Vedete com’è ricco di vocaboli e attento il dialetto quando si tratta di lavoro, di arti e di mestieri?
E, parlando di botti, ci sarebbe poi anche el cucü (il cocchiume: quel turacciol di legno o di sughero, che tura la buca, donde s’empie la botte), la spina (il rubinetto), el burù (la fecciaia, la doga del fondo da cui si cava la feccia, il mezzule di Dante). Da cui viene l’adagio tegner a mà dela spina per molà del burù: lesinare sulle minuzie e sperperare su ciò che conta davvero. E questa mi sa che non la sapeva nemmeno Dante!
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