Zaratustra parlava bresciano?

Quando ci si occupa di etimologia, dell’origine delle parole… l’è come caminà söl gias. Il rischio però va corso - a costo de picà zó el cül! - perché, quando le cose vanno bene, si fanno scoperte interessantissime.
Partiamo dal principio che talvolta tra una lingua e l’altra esistono legami di parentela; e, così come accade per gli uomini, anche per le lingue si danno parenti prossimi e parenti lontani, di quelli che si incontrano di rado, ma con i quali c’è pur sempre un legame. Procediamo comunque con calma perché oggi… il ghiaccio è particolarmente scivoloso!
Tra i tanti vocaboli del dialetto bresciano per rendere l’italiano bambino, troviamo pütì. Il primo parente che incontriamo è il «nostro» latino, che ha puttus (che ritroviamo anche nell’italiano putto; ma c’è anche puer); subito dopo ci imbattiamo nel greco pàis: «Ma non c’è somiglianza!»; e invece - fidatevi! - c’è, anche se non è così evidente. Un passo più in là ed approdiamo nell’antica Persia, la terra di Zaratustra, dove, nei libri sacri dell’Avesta, si incontra puthro. Infine, ancora più a oriente, ci si imbatte nel sanscrito - il latino dell’India antica - dove troviamo, con il significato di bambino e di figlio il vocabolo putró (che nella forma «normale» appare come putràh). «Ma è poca cosa!» dirà qualcuno; è vero, ma mica ci si può aspettare di trovare citazioni in dialetto bresciano nei Veda o in qualche altro testo sacro dell’induismo.
Pütì/putró bastano però a certificare che all’interno del vasto universo delle lingue indoeuropee, antiche e moderne, un posticino ce l’ha anche il nostro bresciano dialettuccio.
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