Blö, celest o azör? Ce lo spiega la signora Felicita

«Azzurre d’un azzurro di stoviglia…» cantava Guido Gozzano, ammaliato dagli occhi – l’iridi sincere – della signorina Felicita, in uno dei più bei ritratti della poesia italiana. Se traducessi quell’azzurro con azör, i gentili lettori mi tirerebbero le orecchie: «En dialet azzurro se dis mia azör, ma celèst o, al masimo, blö!». E avrebbero ragione… o quasi. Perché «quasi»? Perché in bresciano esiste ed è ben attestata l’espressione dà sö l’azör; sta per l’italiano «invetriare», ovvero trattare la terracotta con una vernice che la rende impermeabile e resistente.
La tecnica, è ovvio, non è esclusivamente bresciana (la praticavano già i babilonesi); ma un tempo, quando ancora non c’erano acciaio e alluminio, e il rame non era alla portata di tutti, anche a Brescia pentolame e stoviglie di terracotta erano onnipresenti. Spesso alla vernice veniva aggiunto dell’ossido di cobalto, che le dava quel caratteristico colore «azzurro di stoviglia»; da qui l’origine di azör.
Che è interessante per due motivi: secondo il Dizionario etimologico del dialetto cremonese (G. e A. Taglietti,1994) il bresciano è l’unica parlata lombarda a conservare questa accezione (invetriatura); inoltre è l’unico vocabolo in cui compare quella stessa radice da cui proviene anche l’italiano azzurro, che arriva da lontano, lontanissimo: dal sanscrito rajavarta, divenuto in persiano lazaward, giunto a noi attraverso l’arabo lazuward (il termine indicava il lapislazzulo). Mama, Signur, che giri! E così l’azzurro, assente dalla nomenclatura dei colori, fa capolino in dialetto bresciano suggeritoci dagli occhi della signorina Felicita!
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