Stefano Nazzi: «Nell’omicidio di Garlasco tante cose stridono»

Dare un corpo a voci iconiche come quella di Stefano Nazzi sembra, di primo impatto, quasi straniante: eppure questa sera a dare finalmente una dimensione tridimensionale al giornalista, podcaster, narratore teatrale ed autore del fenomeno «Indagini» c’era il gremitissimo pubblico del Teatro Sociale, accorso alla presentazione del suo nuovo libro «Predatori».
L’autore ha dialogato con il direttore artistico di Teletutto Maddalena Damini all’interno della cornice Librixia, in un excursus che ha alternato la genesi del libro, che racconta le vite e i modus operandi di alcuni dei più grandi serial killer della storia statunitense, a macrotemi che hanno spaziato dall’attrazione moderna – ma non solo - per il true crime, alle differenze tra Italia e Usa, passando per la ricerca necessaria ad immergersi nella psiche e negli atti di casi e personaggi di cronaca nera come quelli analizzati e narrati da Nazzi.
Prima della serata sul palco del Sociale, però, il giornalista ha risposto ad alcune domande sul libro, sul podcast e sull’omicidio di Garlasco, tornato recentemente alla ribalta della cronaca.
Partiamo dal libro. Perché questa storia e perché ha scelto proprio questi serial killer?
Mi aveva incuriosito ed interessato questo periodo degli Usa, che la stessa Fbi definì il periodo di epidemia dei serial killer, a centinaia tra fine anni 60 e fine anni 90. Sono personaggi spaventosi: negli Stati Uniti è come se fosse sempre tutto più grande, tutto esagerato, quindi anche i numeri delle vittime e la caratura dei personaggi che io racconto nel romanzo è per noi qualcosa di impensabile. Nessuno di questi personaggi fu mai riconosciuto infermo di mente: tutti avevano patologie di qualche tipo, ma quasi tutti erano perfettamente inseriti nel normale contesto sociale delle comunità che abitavano. Capire la loro psiche e la loro anima è difficile, lo è stato anche per me.
Quanto è difficile anche non portarsi il lavoro a casa, con storie come queste?
Queste in particolare erano storie molto pesanti, sì, ma io riesco sempre a farlo. Contestualizzo, parlo di cose terribili però so che sono circoscritte e per fortuna costituiscono un’infinitesima percentuale delle storie delle nostre comunità e delle nostre vite.
Non possiamo però non parlare anche di podcasting. Il true crime, che in Italia è esemplificato dal suo «Indagini» è un fenomeno, che il pubblico ama. Si è dato una risposta al perché il true crime piaccia così tanto? Perché ascoltiamo queste storie?
Le ascoltiamo per tanti motivi: perché viviamo una sorta di paura controllata, come se ci immergessimo in queste storie, però a distanza, protetti; perché proviamo empatia per le vittime e le persone coinvolte, e perché siamo curiosi e ci interessano le cose e le storie che non conosciamo ancora e che cerchiamo di capire, soprattutto se le sentiamo lontane da noi.
Il fatto che il podcast per sua natura non abbia immagini aiuta a trattare temi come questi secondo lei?
Direi di sì, il podcast è uno strumento straordinario per raccontare le storie, perché permette una concentrazione profonda. Le immagini a volte distraggono l’attenzione, mentre il podcast è molto immersivo, tanto che ormai si trova con offerte di tutti i tipi e di tutti i generi.

Se parliamo di indagini non possiamo però esimerci da parlare di un caso che è tornato a far parlare di sé: Garlasco. Rischiamo che diventi un caso infinito?
In qualche modo forse questa storia infinita lo è già, diciotto anni sono un tempo incredibile per un’indagine che, dobbiamo dirlo, è partita male. Allo stesso tempo, però, no, perché prima o poi avremo delle risposte. Ora c’è stata una proroga per l’incidente probatorio, ma poi si arriverà ad una conclusione delle indagini e si vedrà se ci sono elementi tali da arrivare a un rinvio a giudizio.
Indipendentemente da quello che emergerà, possiamo dire che a uscirne scornata senza dubbi sarà comunque la giustizia italiana?
Beh, certo la giustizia non ci ha fatto una grande figura, no. Tante cose stridono, a partire dall’impatto delle indagini iniziali, passando poi per il giudizio su Alberto Stasi. Prima due assoluzioni in primo e secondo grado, poi il ribaltone della Cassazione e l’arrivo della condanna, insomma, il dubbio che il «ragionevole dubbio» ci fosse e quindi la sostanza per la condanna stessa mancasse rimane, e sicuramente il fatto che diciotto anni dopo il caso sia stato riaperto è una prova che esemplifica il modus operandi adottato in tutta questa storia.
Lei crede, da giornalista e da narratore, che una parte di colpe in come è andato questo caso sia da imputare a come la stampa l’ha raccontato?
Garlasco fu una narrazione continua e collettiva, a partire, ancora, proprio dalla figura di Alberto Stasi: «il biondino dagli occhi di ghiaccio», «il bocconiano dagli occhi di ghiaccio», la stampa si gettò su questa storia all’istante. A Garlasco arrivò addirittura Fabrizio Corona: la narrazione del caso di cronaca si trasformò in qualcos’altro, divenne una serie a puntate in cui i protagonisti non erano più personaggi di cronaca ma volti televisivi del racconto.
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