Stefano Nazzi: «C'è un delitto bresciano che non riuscirei a raccontare»

Arianna Colzi
L'autore del podcast «Indagini» del Post ha presentato il suo libro a Brescia: «Il male esiste, così come esistono le persone cattive»
Stefano Nazzi ospite alla Latteria Molloy - © www.giornaledibrescia.it
Stefano Nazzi ospite alla Latteria Molloy - © www.giornaledibrescia.it
AA

«Io mi chiamo Stefano Nazzi e faccio il giornalista da tanti anni» è forse una delle intro più riprodotte nelle cuffiette di tutta Italia. Ormai alla stregua di un tormentone, la sigla di «Indagini», podcast true crime prodotto dal giornale online Il Post, ha contribuito a rendere il suo autore Stefano Nazzi, classe 1961, un fenomeno pop che ha raggiunto appassionati di podcast e non. Un esempio di questo grande successo è una Latteria Molloy gremita di ragazzi e ragazze, persone di ogni età venute ad ascoltarlo a Brescia per presentare il suo ultimo libro «Il volto del male» (Mondadori). Giornalista esperto, Nazzi racconta che c’è una storia che non riuscirebbe a raccontare mantenendo la freddezza necessaria, ed è una storia bresciana.

«È la vicenda di Desirée Piovanelli: la figura di quest’uomo adulto, coinvolto nell'omicidio di una ragazzina, è terribile. È un caso che sarebbe davvero duro da affrontare».

Pablo Trincia, uno dei podcaster più famosi in Italia, ha dichiarato che il successo del podcast risiede nell’essere un «ascolto emotivamente forte». Per un giornalista che, come lei, ha lavorato per tanti anni per la carta stampata, com’è stato sperimentare questo genere giornalistico?

Fare un podcast è molto divertente, davvero. Ha ragione Trincia quando parla di emotività: anche i riscontri, i feedback, le domande, che le persone mi comunicano soprattutto attraverso i social, sono immediati e fanno parte di questo rapporto di sintonia e vicinanza che si instaura con l’ascoltatore. Il passaggio dalla carta al racconto audio in realtà è stato piuttosto naturale: se sai raccontare le cose, se sai scriverle, quello che conta, più del mezzo, è la ricostruzione che fai di un fatto, la sua accuratezza.

A proposito di narrazione dei fatti: il suo modo neutro, quasi anglosassone, di ricostruire vicende di cronaca nera, ha avvicinato tanti giovani. Pensa che per loro possa costituire un nuovo tipo di narrazione, anche alla luce dei recenti casi di femminicidio?

Lo spero. Cerco di fare un tipo di racconto che esca da quel tipo di narrazione, talvolta morbosa, restituendole quello che, secondo me, dev’essere: un resoconto dei fatti, il più possibile verificati e riscontrabili. Sono gli avvenimenti che parlano già da soli, seppur nella loro drammaticità, come nel caso degli ultimi femminicidi.  È anche vero che raccontare fatti quando ormai sono conclusi è molto più facile che raccontarli mentre accadono. L’altro obiettivo del mio podcast era non dare per scontati termini propri dell’iter delle indagini, di cui però il lettore non conosce il significato, nonostante ne legga spesso sui giornali. Il processo di spiegare bene le cose può essere noioso, ma è imprescindibile.

Sempre rimanendo in tema cronaca nera, le trasmissioni di Carlo Lucarelli e il libro (seguito poi da un podcast) «La città dei vivi», scritto da Nicola Lagioia (ispirato all’omicidio di Luca Varani, avvenuto a Roma nel 2016, ndr) hanno rappresentato per lei un modello o voleva fare qualcosa di diametralmente opposto con «Indagini»?

Il racconto della cronaca nera l’ha cambiato indubbiamente Lucarelli, il quale, nonostante sia anche romanziere, non ha mai amato indugiare su dettagli morbosi. Mi sono ispirato soprattutto al modello di giornalismo che tentiamo di portare avanti a Il Post, in ogni ambito.

Proprio un suo collega di podcast al Post, Marino Sinibaldi, pochi giorni fa chiudeva la puntata del suo podcast «Timbuktu» con questa frase: «Ci espone al male ma ci salva: forse è per questo che ci piace così tanto la cronaca nera». Qual è la sua opinione?

Anche secondo me ci salva, perché ci fa sentire da un lato migliori, dall’altro ci fa sentire al sicuro perché il nostro pensiero istintivo è «non sarei capace di fare una cosa simile» o «non sarei capace di fidarmi di una persona del genere». Ci salva perché ci spiega che il male esiste, che esistono anche persone cattive.

Che è poi il fil rouge de «Il volto del male»…

Se nel podcast l’obiettivo era raccontare lo sviluppo delle indagini, nel libro volevo raccontare le persone, chi erano, da dove venivano, qual è il loro percorso: conoscendone le storie, diventa impossibile poi parlare di “raptus”. E poi ero interessato a raccontare cos’è successo loro una volta concluso il processo, se si fosse realizzata poi una rivoluzione in loro. Un esempio di mancata rivoluzione è la storia di Angelo Izzo, che racconto nel libro.

Come ha scelto le storie per il podcast e per il libro? E c’è qualche storia che l'ha colpita non solo a livello professionale?

Per il podcast cerco di scegliere storie che siano abbastanza diverse tra di loro: quella che mi ha colpito più di tutte, perché mi risultava incomprensibile nelle sue irrazionali motivazioni, è stata quella delle Bestie di Satana. Come disse uno dei colpevoli: «Noi facevamo del male per fare del male». Si uccidevano tra amici, senza motivo. Mi ha sempre sconvolto vedere come dei ragazzi di 17 anni distruggano le loro vite, quella delle loro famiglie e dei loro amici di una vita.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Condividi l'articolo