In Lombardia più inceneritori che rifiuti, le associazioni: «Ora basta»
In Lombardia il rifiuto non si smaltisce e basta, si «capitalizza». Dodici impianti di incenerimento, ventiquattro linee attive, cinque cementifici che bruciano tutto ciò che resta fuori dai camini ufficiali. È il cuore caldo di un sistema che macina rifiuti come materia prima e ne estrae energia, dividendi, potere. Ma qualcosa s’inceppa: le associazioni ambientaliste – sei, in un fronte compatto – ora chiedono lo stop. Una moratoria. Un taglio netto alla logica dell’ampliamento senza fine.
Il documento
Lo fanno con un documento consegnato al governatore Attilio Fontana e al Consiglio regionale: le richieste sono cristalline. Eccole: sospendere nuove autorizzazioni per impianti di incenerimento e discariche, rivedere il piano regionale (in scadenza nel 2027, ma già oggi in fase di revisione, con polemiche incorporate), ridurre la capacità autorizzata, portare la Regione nell’orbita dell’economia circolare. Perché oggi – incalzano i rappresentanti di Rete ambiente Lombardia, Isde (Associazioni medici per l’ambiente), Zero waste Europe, 5R Zero sprechi, Cittadini per l’aria e Medicina democratica – è l’opposto: ci sono più forni che rifiuti, impianti che viaggiano ben oltre il residuo prodotto.
I numeri
Il dato chiave: a fronte di una capacità disponibile che supera i tre milioni, nel 2023 solo gli inceneritori «ufficiali» (gli impianti come il Termovalorizzatore di Brescia, per intenderci) hanno bruciato 2,3 milioni di rifiuti. Eppure i lombardi hanno generato 1,2 milioni di tonnellate di scarti urbani non ricilabili. Il resto? Arriva da fuori: dal Piemonte, dal Lazio, dalla Campania. Secondo Ispra, il 43% dei rifiuti bruciati in Lombardia proviene da altre regioni. È il prezzo della sovraccapacità, ma anche il segreto del business. Perché ogni tonnellata incenerita vale oro.
«Filiera difficile da fermare»
Più di 90 euro di incasso medio, solo per bruciarla. Poi c’è l’energia venduta, il teleriscaldamento, i certificati ambientali. Un giro d’affari che fa comodo ai comuni azionisti, che hanno tutto l’interesse a tenere alta la quota bruciata: senza, molto spesso, i bilanci non reggono. Il risultato? Una filiera «assai difficile da fermare – sottolinea Celestino Panizza di Isde –: basti pensare quel che A2A frutta al Comune di Brescia, parliamo di quasi 79 milioni di dividendi».
Per Marco Caldiroli, presidente di Medicina Democratica, «gli inceneritori sono sovrabbondanti, in contrasto con le direttive europee e frenano la transizione verso un modello circolare. Bruciare rifiuti perpetua un ciclo lineare che sfrutta, spreca e inquina. E continua a produrre scarti tossici da smaltire altrove». Lo conferma Panizza: «Brescia ne è la prova. Ogni anno 133mila tonnellate di scorie e 33mila di ceneri, che sono rifiuti pericolosi, finiscono in discariche speciali, in parte all’estero. Gli impianti non chiudono il ciclo: lo moltiplicano».
Monitoraggio epidemiologico
Anche l’argomentazione della modernità dei nuovi impianti traballa. Le tecnologie sono migliorate, sì, ma le emissioni restano: diossine, furani, Pfas, polveri sottili. E manca del tutto, in Lombardia, un sistema di monitoraggio epidemiologico accurato, «il che significa basarsi non sulla media generale, ma sulla residenzialità». Eppure si può fare: lo hanno in Piemonte, in Emilia Romagna. Qui no. Nessuno sa – non con precisione, almeno – «cosa succede alla salute dei cittadini che vivono vicino ai forni».
Un nuovo modello
Resta il fatto che molti di quei rifiuti potrebbero non finire nemmeno negli impianti. Uno studio lo conferma: oltre il 60% del materiale che oggi viene incenerito sarebbe ancora recuperabile. Ma per recuperarlo, bisognerebbe cambiare modello. Intervenire a monte, sulla produzione, sulla raccolta, sulla selezione. E non conviene. Non abbastanza. Non rende di certo 79 milioni di euro, in sostanza. E così il sistema tiene: impianti pieni, rifiuti in arrivo da ovunque, flussi costanti di denaro. Nel frattempo, a Montello (provincia di Bergamo), è già in corso l’iter autorizzativo per un nuovo inceneritore. Più impianti, meno rifiuti. Il paradosso è servito. Ma finché il rifiuto resta un buon affare, nessuno ha interesse a chiudere il rubinetto.
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