A Brescia Codici rossi raddoppiati in sei anni: «Dare alternative alle donne»

I dati parlano con una forza che lascia poco spazio all’interpretazione. A Brescia, dall’inizio dell’anno, i Codici rossi sono stati 1.635, che diventano 1.940 se si considerano gli ultimi dodici mesi. Una pressione costante, quotidiana, che racconta una violenza non episodica, ma ormai endemica.
Se si guarda indietro, il quadro è ancora più evidente: nel 2019 i casi erano 900, nel 2021 1.100, nel 2022 1.200, nel 2023 1.400. In sei anni, i casi sono più che raddoppiati. Non è una statistica: è una linea che sale come un segnale d’allarme che nessuno può fingere di non vedere. «Sono situazioni difficili da decifrare, e non sempre è possibile cogliere subito i segnali», ha spiegato il pubblico ministero Alessio Bernardi, ospite ieri sera nella trasmissione Messi a Fuoco su Teletutto. «Ma una cosa è certa: rispetto a dieci anni fa tanto è stato fatto dal punto di vista normativo e della rete interistituzionale, anche se i dati sono evidentemente in crescita».
L’analisi
È proprio questo «trend in crescita» che ha guidato la puntata della trasmissione, dove magistratura, politica, centri antiviolenza e testimonianze dirette hanno provato a comporre una fotografia complessa della violenza di genere oggi. «Brescia, con il suo sistema di intervento coordinato, è diventata un laboratorio nazionale – ha spiegato Bernardi – la macchina della giustizia qui corre, con il 70% dei procedimenti chiusi in sei mesi. Ma i numeri restano enormi e rivelano un sommerso che continua ad emergere». Dietro questa rapidità si nasconde però un paradosso: nel 60-65% dei casi la richiesta è di archiviazione, spesso per mancanza di procedibilità.
Significa che molte donne denunciano, ma poi non riescono — o non possono — sostenere il percorso. Sul fronte dell’ascolto e dell’accompagnamento delle vittime, l’avvocata della Casa delle donne, Beatrice Ferrari, ha ricordato quanto il percorso sia fragile: «In dieci anni non ho mai visto una donna arrivare dicendo: “Voglio denunciare”. Mai» Paura, dipendenza economica, figli piccoli, speranza di un cambiamento: sono le zavorre che tengono molte donne nella spirale. E spesso l’unica alternativa — la struttura protetta — è una soluzione che «sradica», e che molte donne vivono come «una forma quasi di carcerazione». Per questo, dice Ferrari, «è fondamentale riuscire ad allontanare l’uomo violento dalla casa familiare, non la donna e i bambini».
Secondo l’assessora alle Pari Opportunità del Comune di Brescia Anna Frattini, non si può leggere tutto questo ignorando la radice culturale del fenomeno: «Non credo esista un codice genetico che distingue uomini e donne nella violenza. Esiste invece una storia che ha costruito due generi con poteri diversi».
Un lavoro culturale urgente, soprattutto alla luce dell’approvazione unanime della legge sul consenso e delle reazioni che ha generato: «Nei commenti online vediamo quanto lavoro resti ancora da fare, soprattutto sugli uomini».

Testimone di un dramma
E poi c’è chi quella spirale l’ha vista dall’interno, impotente. Giuseppina Ghilardi, madre di Daniela Bani — uccisa nel 2014 dal compagno — lo ha detto con una lucidità che fa male: «Io sapevo che mia figlia avrebbe fatto quella fine. Non ha mai denunciato perché sapeva che, se lo avesse fatto, lui l’avrebbe ammazzata subito». Racconta di affitti pagati, tentativi disperati, scarpe rotte, anni di violenza psicologica: «Finché ha potuto ha resistito. La sua fine era questa. Nessuno poteva fare nulla».
Una consapevolezza amara che fotografa una realtà ancora oggi drammatica, nonostante il Codice rosso, che pare non avere soluzione. «Dobbiamo riuscire a garantire alle donne una possibilità concreta di cambiare la loro vita: sostegno economico, accoglienza, protezione – ha concluso Bernardi – La Procura interviene quando spesso è già tardi. Per questo la rete è tutto. Ma se non diamo alternative alle donne, la denuncia resta un salto nel vuoto».
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