Due capolavori della Carrara di Bergamo parlano con grazia di sofferenza

Anche questa rubrica vuole partecipare con un apporto specifico all’anno di Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023, e lo fa attraversando l’Oglio per «spedire» ai lettori bresciani qualche cartolina anche dalla cugina terra orobica. Due donne. Due modi di esprimere un dolore di natura molto diversa, quello di una figlia allontanata con disgusto da una madre che la ritiene sporca e quello di una ragazza che apprende la notizia della morte di un’amica. Nel primo caso la sofferenza modifica i volti e deforma i connotati, nel secondo lascia senza forze, senza sguardo. Due capolavori ottocenteschi conservati nell’Accademia Carrara Di Bergamo e dipinti da mani maschili.
«La maledizione di una madre» di Ponziano Loverini, del 1886, s’ispira alla Traviata e alla Signora delle Camelie, a Violetta e a Margherita, entrambe con il nome di un fiore di campo e votate a umiliazioni imposte da povertà e disperazione. La protagonista della tela viene cacciata con faccia sfigurata dal disprezzo dalla sua stessa genitrice, che alla povera anima ha dato la luce ma non la speranza né il perdono. Urta il contrasto tra l’abito sgargiante della giovane che, con gli occhi sbarrati, scappa via dalla madre cenciosa e infuriata e dal tugurio, dove forse lei stessa è cresciuta, in cui spicca, sopra un cuscino lurido, un crocefisso con attaccato un grosso ramo d’ulivo non foriero di alcuna pace, anzi. Il braccio della vecchia (che tanto anziana non è, non avendo un capello bianco) si allunga nel gesto di lanciare contro la figlia quel denaro che considera immondo.
La non più fanciulla (ha smesso di esserlo presto) ha la pelle chiara di chi non prende il sole e gli occhi allucinati per i continui abusi. Il suo sguardo sfonda la parete della finzione e sembra chiederci cosa può fare una creatura a priori condannata alla dannazione per ottenere l’approvazione di qualcuno, per salvarsi, ricominciare. E quell’ombrellino chiuso, non in grado di fornire alcun riparo, è l’amara sottintesa risposta: si dovrà rassegnare, la sua sorte è segnata e lei lo sa.Di soli tre anni più recente è «Ricordo di un dolore» di Giuseppe Pellizza da Volpedo, autore de Il Quarto Stato. Il pittore era a Parigi all’Esposizione Universale (quella per cui fu costruita la Tour Eiffel) quando seppe della morte della sorella. Qui la sofferenza per una perdita irreparabile è affidata al ritratto di un’amica della defunta. I suoi occhi fissano il vuoto, il suo abito casto parla di una signorina sensibile e bene educata.

Riversa sulla sedia, in mano tiene la lettera che le comunica la sconvolgente notizia. Sopra il foglio una viola del pensiero, che riassume il senso di una mancanza destinata a non esaurirsi mai. Una ragazza ci guarda, una no, ma entrambe distanti perché il dolore rende soli, devastate dalla scoperta di quanto la vita fa male e che, per quanto ami e cerchi e speri, non sempre riesci non si dice a vincere, ma neppure a pareggiare. Perdi e basta. Entrambi i quadri sono il riassunto di una sconfitta. Descritta con magica grazia, ma sempre sconfitta resta.

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