Regionali, incubo astensionismo: i partiti temono la scarsa affluenza

Lo spauracchio della fuga dalle urne preoccupa tutti: il debutto del Terzo Polo scombina i vecchi schemi
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ELEZIONI, CHE CONFUSIONE...
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Se la gioca alle urne da solista la Lombardia, come ai vecchi tempi, senza essere accompagnata per mano dalle Politiche o dalle Amministrative. E (anche) questo contribuisce a fare salire l’asticella dell’alta tensione degli aspiranti governatori. Per non parlare dell’ansia da prestazione dei vertici di partito, strattonati dalle aspettative dei candidati in lista, (quasi) tutti equamente innervositi dal countdown inesorabile che segna meno sei giorni al verdetto delle urne: dopo il voto che si consumerà domenica 12 e lunedì 13, tutti sapranno infatti se siederanno oppure no nell’Aula regionale che verrà.

Ma a fare fibrillare il clima politico è soprattutto «lui»: il fattore A. Che lo si voglia guardare come astensione o come affluenza poco importa: è questo il valore più incerto (e insieme lo spauracchio che più terrorizza i candidati) di queste elezioni regionali. Anche perché le percentuali delle proiezioni, da un lato, e l’andamento degli ultimi anni, dall’altro, non lasciano certo dormire sonni tranquilli. A nessuna delle compagini.

Tangentopoli

Per capire come si arriva al ritratto di quello che ormai da anni si sta via via cristallizzando come il vero primo partito, bisogna partire da lontano: 1992-1996, Tangentopoli. È esattamente da lì, dalle inchieste della magistratura che fece crollare l’architettura di un sistema organizzato di corruzione utilizzato dai partiti per finanziare le loro attività (e, in alcuni casi, per arricchire dirigenti e singoli), che l’affluenza inizia la sua discesa. Non a caso nel 1995 (quando pure debuttò la nuova legge elettorale) l’astensionismo si palesa per la prima volta in doppia cifra: 11,93% nel Bresciano.

Tangentopoli portò al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima Repubblica, ma dopo il terremoto la percezione verso la politica non è cambiata. Almeno non stando ai dati: tanto è vero che cinque anni più tardi, nel 2000 a disertare le urne sono stati il doppio dei bresciani, il 21,66%, e da lì in avanti la platea di coloro che agli appelli dei partiti hanno iniziato a rispondere «no, grazie» è cresciuta. Le bufere giudiziarie che hanno investito il Pirellone di Formigoni tra il 2010 e il 2013 non hanno poi certo contribuito positivamente.

È vero: nel 2013, quando i lombardi sono stati chiamati al voto anticipato, l’astensionismo è calato (passando dal 32,02% dei due anni precedenti al 19,42), ma la (più) alta affluenza è stata dettata dal tandem elettorale con le Politiche. Che tuttavia hanno iniziato a disperdere il loro «fascino» già nella campagna elettorale che ha preceduto la legislatura attuale: nel 2018, a declinare l’invito di recarsi ai seggi per scegliere governo nazionale e regionale è stato ben il 23,44 per cento dei bresciani.

Geometrie variabili

Ampliando l’inquadratura dello zoom all’intera regione, alle ultime Politiche in Lombardia ha votato poco più del 70% degli aventi diritto. Andando un bel po’ più indietro, alle Regionali del 2018 l’affluenza si è attestata di poco sopra il 73% (73,01 per la precisione), mentre al giro prima, nel 2013, era andata oltre il 76,7%.

I sondaggisti hanno già avvertito la politica: stavolta sarà peggio. Ecco perché tutti sono preoccupati. Non solo c’è una corsa a quattro, ma queste Regionali sono anche «la prima» del Terzo Polo con Letizia Moratti che ha un profilo fluido dal punto di vista elettorale. Tradotto: può pescare il voto dei delusi di centro.

E se l’astensione resterà così alta come profetizzato dagli esperti, significa che a rimetterci saranno i partiti tradizionali: tutti, a conti fatti, si vedranno mancare dei voti. Tanto più con l’opportunità di avvalersi del voto disgiunto.

Attilio Fontana corre senza quel margine di sicurezza che l’abbinata con le elezioni Politiche avrebbe dato al centrodestra: se gli elettori di quell’orientamento se ne staranno stancamente a casa, lontano dai seggi, l’eventuale vittoria potrebbe non essere così trionfale come l’asse Lega, Fdi e Fi si aspettano. Ma non è l’unico fattore questo. La rottura compiuta da Letizia Moratti, poi, potrà anche non portare l’ex vicepresidente di Fontana alla vittoria, ma potrebbe bastare a far calare il consenso di lui. L’epilogo è lo stesso: il centrodestra si assicurerebbe un premio di maggioranza risicato, inedito al Pirellone, in Consiglio regionale, e questo consentirebbe al Terzo Polo di rientrare in gioco puntando su alleanze a geometrie variabili in Aula, dopo il voto (sulla falsa riga di quanto sta del resto avvenendo a Roma).

I quattro candidati: Pierfrancesco Majorino, Mara Ghidorzi, Attilio Fontana, Letizia Moratti
I quattro candidati: Pierfrancesco Majorino, Mara Ghidorzi, Attilio Fontana, Letizia Moratti

E se Unione popolare con Mara Ghidorzi realisticamente sa già che la sua sfida vera è riuscire a superare lo sbarramento, il centrosinistra - arrivato alle Regionali già in subbuglio e con un congresso nazionale in corso - ha poco da perdere: Pierfrancesco Majorino ha accettato una corsa difficilissima, peraltro dopo un lungo rosario di «non sono disponibile» recitato dagli altri papabili candidati.

Test generale

Queste Regionali rappresentano insomma molto più di un semplice voto per eleggere il governatore. I partiti lo sanno: sono elezioni diverse, queste.

Fontana oltre alla guida della Lombardia si gioca la sopravvivenza della Lega di Matteo Salvini. Dalle urne uscirà lo strapotere di Fdi nella coalizione, ma il vero verdetto che tutti guarderanno sarà quanto effettivamente peserà ancora la Lega. C’è chi, come Fdi, rileggerà i dati di questa tornata come un «questionario di gradimento» dei primi mesi di governo. Chi, come il Pd, misurerà il debutto dell’alleanza con il M5s e lo stato di salute del partito (e l’entità dell’impresa) che il futuro segretario erediterà.

E chi, come i frontman (Fontana e Majorino) e le frontwoman (Moratti e Ghidorzi) di questa campagna elettorale sa già che la prossima settimana sarà quella più dura. Perché alla vigilia del voto si è tutti eroi. I conti si fanno the day after, quando per una ragione o l’altra resterà l’amaro in bocca e una distesa di rapporti guastati: per colpa dei «no» da pronunciare di fronte alle aspettative di chi pensava di entrare in squadra, oppure per distribuire le responsabilità della sconfitta. Quale sarà l’epilogo non è ancora detto, ma comunque vada dopo il voto il Consiglio regionale non sarà certo più quello di prima.

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