Di Pietro: «Tangentopoli, un cancro che si fingeva non esistesse»
Raccontare a chi non cera, cosa ha rappresentato per lItalia il periodo di Mani pulite. Questo ha fatto Antonio Di Pietro, ospite ieri di Azione universitaria nellaula Magna della facoltà di Giurisprudenza. Il pm simbolo del pool milanese che con la sua azione mise di fatto la parola fine alla Prima Repubblica, ha parlato davanti ad una platea di studenti nati per la stragrande maggioranza dopo il Duemila e che quindi ha conosciuto Tangentopoli solo dai libri di storia. A
partire dalla data simbolo, da quel 17 febbraio 1992 in cui Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, venne arrestato con in mano una tangente da sette milioni di lire.
«Da quei giorni ad oggi doveva cambiare tutto, ma non è cambiato nulla» esordisce Di Pietro. «Allora cera un cancro che tutti conoscevano. Oggi si vuole fare una rivisitazione completa di quanto abbiamo fatto e sembra che sia stata una guerra tra guardie e ladri. Ma la colpa era nostra che facevamo le indagini o di chi rubava? Mi sarei dovuto girare dallaltra parte?» chiede l’ex magistrato che una volta lasciata la toga è entrato in politica arrivando fino a ricoprire l’incarico di Ministro nel primo e nel secondo Governo Prodi.

«Non accetto che qualcuno oggi si permetta di dire che Mani Pulite è stata una tragedia per l’Italia» spiega Di Pietro che accanto a Saverio Regasto, docente ordinario di Diritto pubblico comparato allUniversità di Brescia, ha fatto un salto temporale di 30 anni. «Tangentopoli era una città reale del malaffare, in cui il sistema degli affari baciava il sistema della politica.
Ricordo i primi interrogatori: un uomo di 80 anni che faceva l’imprenditore dal 1947 mi disse che aveva sempre pagato mazzette per gli appalti mentre un ragazzo di 27 anni che aveva ereditato sei mesi prima l’azienda dal padre deceduto, mi spiegò che in quel lasso di tempo aveva versato tangenti per tre appalti e quando gli chiesi perch lo aveva fatto mi disse: "perch anche papà ha sempre fatto così"». «Un peso sulla coscienza».
L’ex pm, parlando agli studenti di iurisprudenza, ha poi ricordato: «Mani pulite non era nata dal nulla. Si cercava da anni di accendere il motorino d’avviamento dell’inchiesta. Sfatiamo alcuni miti: non è stata un’indagine sulla corruzione, ma sul falso in bilancio che portava alla creazione dei fondi neri all’estero e poi, altro mito, Bettino Craxi non è stato incriminato e condannato "perch non poteva non sapere" come si vuole far credere, ma perch aveva fondi neri in Svizzera». In un’inchiesta che portò a 253 processi, 1.300 condanne e 430 assoluzioni - «di cui 250 per carenza del requisito di pubblico ufficiale» ha ricordato il professor Regasto - non si possono dimenticare i suicidi di alcuni indagati.
Da Raul Gardini, il più illustre, al bresciano Sergio Moroni, deputato socialista che si tolse la vita il 2 settembre 1992. «Pur non sentendomi in colpa perchè ritengo di aver agito in buona fede, avevo e ho sulla coscienza quello che è successo. Il caso di Moroni è stata una vicenda drammatica per la sua famiglia, ma anche per noi investigatori. Non avrei mai voluto che succedesse» ha commentato Di Pietro.
«Ricordiamo però che nella lettera di addio Moroni aveva ammesso i fatti contestati. Sicuramente però non doveva finire così» è il pensiero dell’ex magistrato che rigetta l’accusa di aver abusato della carcerazione preventiva. «Io sapevo che la reazione al rischio dell’arresto poteva essere il gesto estremo, ma quali alternative avevo? o chiesto e ottenuto gli arresti sempre e solo per il rischio di inquinamento probatorio. Unico strumento per fermare il sistema».
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