La temperatura cresce di quasi 3 gradi: a soffrire di più sono le zone montane
Si voleva un esempio concreto e tangibile degli effetti della crisi climatica? Eccone uno che stiamo vivendo da settimane quotidianamente: la siccità. Le ricadute della teoria del «ci pensiamo dopo», adesso sono visibili a tutti: non c’è neve, i fiumi sono prosciugati, l’agricoltura sta morendo di sete e l’oro blu inizia a scarseggiare ovunque, al punto che si inizia a pensare a un razionamento dell’acqua e in molti Comuni sono entrate in vigore le ordinanze anti-spreco.
La gravissima siccità che ha colpito il Po e gran parte dei corsi d’acqua italiani è la peggiore degli ultimi 70 anni ed è ancor più grave perché si è manifestata in largo anticipo, ovvero fin dalla fine dell’inverno. Non era stato così invece nei precedenti casi straordinari dei vent’anni precedenti: nel 2003 e nel 2006, ad esempio, la crisi aveva iniziato a palesarsi solo a inizio luglio.
Effetto Pil
Che da una decina d’anni ci si trovi a fare i conti con un’assenza prolungata di precipitazioni non è tuttavia una novità, è vero. Ma questa volta è diverso: lo scenario nel quale ci ritroviamo è peggiore. Come mai? Perché la secca è aggravata da temperature roventi che bruciano la terra e fanno evaporare più velocemente le molecole di H2O. L’esempio, anche in questo caso, è tangibile: l’estate non era ancora ufficialmente iniziata che già a Brescia il termometro oscillava tra i 30 e i 38 gradi. Ed è esattamente questa la prova della fragilità climatica in cui ci troviamo.
È una scoperta di oggi? No. La comunità scientifica e gli attivisti tentano di farlo capire da moltissimo tempo. Ma si sono trovati - e spesso si trovano ancora - incastrati nella trama cinematografica di «Don’t Look Up», il film contraddistinto dal tono frustrato dello scienziato Leonardo Di Caprio quando in ogni modo (ma, in quel caso, purtroppo inutilmente) tentava di avvisare che la Terra era in pericolo (in quel caso il rischio era rappresentato dallo schianto di una cometa). La buona notizia è che noi, a questo punto, la cometa saremmo ancora in grado di fermarla. Per farlo, servono però una politica incisiva, azioni nette, l’aiuto (anche) delle nuove tecnologie e della ricerca.
Qualcosa si sta già facendo, ma non è neppure vicino alla sufficienza e l’appello è sempre lo stesso: non bisogna rallentare, anzi. Bisogna mantenere il tema in cima all’agenda delle priorità, perché la crisi climatica è un problema che, se irrisolto, continuerà ad avere ricadute su ogni settore: l’agricoltura e quindi il cibo non solo per l’uomo ma anche per il bestiame, l’industria manifatturiera (gomma tessile, siderurgia carta, legno), ma anche per la produzione di energia idroelettrica, già ridotta al minimo. Per capire l’impatto di tutto ciò in chiave economica basta un dato e a riportarlo è il «Libro bianco sull’acqua» del think tank Ambrosetti: senza la risorsa idrica, il 17% del Pil italiano non potrebbe essere generato.
I numeri
Un altro esempio quotidiano della crisi climatica è il meteo: temperature bollenti, tempeste, aumento delle «bombe d’acqua» che devastano orti e raccolti, continui incendi. Dati alla mano, la temperatura media nei Comuni italiani è cresciuta di 2,2 gradi in meno di mezzo secolo, toccando picchi di oltre 4 gradi in alcune aree dello Stivale. Si tratta di un valore medio e la situazione è molto eterogenea lungo il territorio, ma grazie a una ricerca pubblicata dallo European data journalism network, nell’ambito del progetto «In marcia con il clima», è possibile conoscere con precisione la variazione di temperatura per ciascun Comune italiano tra gli anni ’60 del Novecento e il decennio 2009-2019. I dati utilizzati per lo studio sono quelli prodotti da Copernicus e dallo Ecmwf (European centre for medium-range weather forecasts).
Degli effetti su Brescia ne avevamo già parlato un anno fa: in media l’aumento è di 2,6 gradi. I dati confermano una crescita media più vicina ai tre gradi che ai due: a Brescia la temperatura è aumentata di 2,61 °C, a Desenzano di 2,78, a Rovato di 2,87, a Montichiari di 2,49. I picchi si registrano in Valcamonica: a Berzo Demo, Sellero, Cedegolo e Cevo, ad esempio, la crescita è stata di 3,66°. Come mai nei territori montani si registra il picco maggiore? Lì le ricadute sono più evidenti proprio per l’altitudine: rispondono cioè con rapidità e in modo amplificato alla crisi climatica, tanto da essere considerati le vere sentinelle.
Gli effetti sul sonno
L’impennata delle temperature lascia in eredità un ulteriore effetto collaterale: ci ruba (letteralmente) il sonno. A certificarlo è un recente studio dell’Università di Copenaghen, pubblicato sulla rivista «One Earth»: i ricercatori hanno «catturato» i dati del sonno per poi intrecciarli a quelli relativi alle temperature notturne nelle rispettive città di residenza di un campione composto da 47mila persone di 68 Paesi differenti. Cosa emerge? In sostanza, nelle notti in cui la temperatura esterna supera i 30 gradi, perdiamo in media 15 minuti di sonno, un effetto che poi si accumula.
Invertire rotta
L’acqua che manca, il caldo torrido, il deserto che viaggia a una media di più di 5 km l’anno (in Lombardia la desertificazione si attesta al 25%). I cambiamenti climatici raggiungono una concretezza mai toccata prima, come emerge nell’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Ma ciò che più colpisce dello studio è la chiarezza sulle possibili soluzioni. Cioè? «Siamo molto più sicuri del fatto che azzerando le emissioni nette si arresterà anche il contributo umano al surriscaldamento». Non solo: azzerando le emissioni «il cambiamento della temperatura potrebbe cominciare a muoversi in senso opposto». Questo significa che siamo nelle condizioni di fermare parte della crisi in atto.
Recita il report: «La rimozione dell’anidride carbonica (CO2) dall’atmosfera potrebbe invertire alcuni aspetti della crisi climatica. Tuttavia questo potrà succedere solo se la rimozione sarà superiore alle emissioni. Alcune tendenze del cambiamento climatico, come l’aumento della temperatura, comincerebbero a invertirsi». In altre parole, quello offerto nell’ultimo atto dello studio è una sorta di piano a lungo termine, un vademecum per politica e cittadini. Dovremmo, certo, introdurre profondi cambiamenti nelle nostre società, nelle nostre economie e nel nostro modo di vivere. Ma è possibile farlo. E, oggi, sappiamo esattamente in che modo.
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