Il chirurgo afghano fuggito ai talebani accolto dall’Università di Brescia

Mohammad Zahir Sha ha ottenuto una borsa di ricerca in Anatomia
Il neurochirurgo Mohammad Zahir Sha
Il neurochirurgo Mohammad Zahir Sha
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C’era una volta l’Afghanistan. Non perché ora non ci sia più, anzi. Non c’è nelle pagine della cronaca, nelle analisi politiche, nella «conta» dei profughi. La guerra nel cuore dell’Europa e le sue drammatiche conseguenze hanno di fatto annullato l’interesse generale su quanto accade nel lontano Oriente, eccetto quello sui grandi equilibri geopolitici tra i blocchi che tornano (meglio, continuano) ad essere contrapposti. Poi, nei corridoi del Dipartimento di Anatomia dell’Università degli Studi di Brescia diretto da Rita Rezzani incontriamo il neurochirurgo Mohammad Zahir Sha, già primario della Neurochirurgia del Royal Medical Complex, uno degli ospedali di Kabul, la capitale afghana. Al suo fianco, per affinità di interessi, il professor Marco Fontanella, direttore della Neurochirurgia universitaria dell’Ospedale Civile.

Perché Brescia

Zahir Sha è a Brescia perché ha vinto una borsa di ricerca. Non può mettere piede in sala operatoria e nemmeno incontrare pazienti perché i suoi titoli di studio non sono abilitati nel nostro Paese. Può, questo sì, discutere i casi clinici insieme ai colleghi bresciani e parlare con gli studenti di Medicina, soffermandosi in particolare su una delle casistiche maggiormente presenti nel suo ospedale a Kabul e riguardanti i traumi di guerra. Di questo, ad esempio, ha parlato in un incontro che si è svolto a Medicina giovedì scorso. Lo specialista cerca di riavvolgere i fili della sua storia e, da subito, afferma di aver sempre vissuto in guerra, perché aveva pochi mesi, nel 1979, quando i russi invasero l’Afghanistan. Poi i sovietici sono stati cacciati dai mujaheddin, così allora si chiamavano i talebani armati dagli Usa e per quasi vent’anni è di nuovo calato il silenzio su quel Paese drammaticamente tornato alla ribalta nel 2001, dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Quel che è accaduto negli ultimi vent’anni è cronaca che non si è ancora fatta storia: il regime dei talebani » è stato rovesciato dall’intervento militare statunitense. I «talib», gli studenti, lasciarono Kabul per poi rientrarvi, senza trovare resistenza, nell’agosto 2021.

La grande paura

«Ero in ospedale, quel giorno, quando tutti iniziarono a correre, spaventatissimi. I talebani entravano a Kabul e nessuno aveva idea di cosa sarebbe accaduto. La paura dominava. Ad aumentarla, anche il rumore di spari e la notizia di uccisioni. - racconta Zahir Sha -. La sera tornai a casa in ambulanza, sperando che almeno quella non sarebbe stata colpita e andai a dormire a casa di mio suocero. Per me quel 15 agosto 2021 è stato l’ennesimo giorno nero nell’infinità di giorni neri che ho vissuto da quel 1979. Non eravamo più sicuri, anche perché l’ospedale è vicino alla residenza del presidente e all’ambasciata iraniana. Il giorno dopo, un gran numero di aerei iniziò a sorvolare il cielo di Kabul. Nessuno capiva perché, ma temevamo di essere bombardati. Tutti i parlamentari erano in pericolo. Cercavano di rassicurarci, dicendo che i medici non sarebbero stati toccati, ma io non ero più tranquillo. Con mia moglie e i miei cinque figli abbiamo deciso di partire. Loro ora sono a Istanbul e io sono qui, perché sognavo di vivere un’esperienza in una realtà scientifica di prestigio come la vostra».

Una donna afghana con il suo bambino
Una donna afghana con il suo bambino

Ritorno impossibile

Zahir Sha ha lasciato l’Afghanistan perché non si sentiva più sicuro e avrebbe tutti i requisiti per richiedere lo status di rifugiato. «Non l’ho fatto perché vorrei poter tornare nel mio Paese - afferma -. Laggiù hanno bisogno di me e dopo l’ultimo terremoto mi hanno chiesto di rientrare. Voglio tornare, ma lo farò solo quando l’Afghanistan sarà in pace. Quando? Credo che nella mia vita non vedrò mai la pace, forse la vedranno le prossime generazioni. Credo che noi afghani siamo i principali responsabili di questa situazione perché negli anni, per denaro, abbiamo messo in vendita tutto. Dovremmo amare la nostra terra come nostra madre, ma non è così».

La sede del rettorato dell’Università Statale di Brescia - Foto © www.giornaledibrescia.it
La sede del rettorato dell’Università Statale di Brescia - Foto © www.giornaledibrescia.it

Il nome del re

Zahir Sha ha il nome del re. Come lui si chiamava colui che è rimasto sul trono in Afghanistan dal 1933 al 1973 e, ironia della sorte, venne deposto da un colpo di stato militare mentre era in visita in Italia, Paese che gli ha concesso l’asilo politico. Non accenna a eventuali parentele, ma torna al presente per ricordare che l’attuale ministro della Sanità afghano è un urologo che lavorava insieme a lui. Un amico diventato talebano. Zahir Sha, pashtun nativo della provincia di Paktia, non si esprime sui talebani e nemmeno parla dell’emancipazione femminile e del medioevo di ignoranza e sottomissione in cui le donne sono costrette a vivere e dal quale cercano di affrancarsi sfidando i talebani con la frequenza di scuole clandestine.

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La sanità

Preferisce «rifugiarsi» nel terreno a lui più vicino che è quello della sanità. «Sento che qui a Brescia per fare una risonanza ci sono lunghe liste d’attesa, però l’esame è gratuito» afferma. In Afghanistan? «Ci sono due risonanze in tutta Kabul e l’esame completo costa circa 60 euro. Tenete conto che lo stipendio medio di un insegnante è di 100 euro». Non ci sono liste d’attesa, appunto. Per curarsi, le persone vendono la casa, se ce l’hanno, oppure si rivolgono a ospedali quali quello di Emergency o della Croce Rossa. Alla fine della chiacchierata, sottovoce: «Sono comunque felice che gli americani se ne siano andati». Il grande gioco ritorna alla casella di partenza.

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