Dopo l’epidemia, molte donne rischiano di restare senza lavoro

Strette tra figli senza scuola, genitori anziani da accudire e impegni professionali da rispettare
Se aiutate, il 51% delle donne potrebbe lavorare in modo agile - © www.giornaledibrescia.it
Se aiutate, il 51% delle donne potrebbe lavorare in modo agile - © www.giornaledibrescia.it
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Tra le molte incognite e criticità legate all’ormai famigerata Fase 2, c’è anche quella dell’occupazione femminile, perché comunque si guardi la ripresa, a nessuno può sfuggire il prezzo che le madri lavoratrici stanno pagando in questi mesi, strette in una morsa che le costringe ad arrancare tra figli a casa da scuola, genitori anziani da curare, impegni professionali da rispettare e l’immancabile gestione della casa. Con il rischio, non da poco, che il peggio debba ancora venire. Ossia che una parte di loro al lavoro non ci possa rientrare, a meno che non si intervenga in modo strutturale sugli strumenti di lavoro agile esistenti.

Solo a Brescia, stando ai numeri forniti dallo studio «Mamme e lavoro al tempo dell’emergenza da Covid-19» effettuato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, sarebbero 229mila le donne occupate, di cui ben 114mila mamme e 64mila con figli minori. Durante il periodo del lockdown, il 72% delle donne bresciane ha continuato a lavorare nei servizi essenziali: al primo posto fra i settori di maggior impegno delle mamme si trovano i cosiddetti white jobs (servizi sanitari, sociali e alla persona) con 14mila mamme occupate durante il confinamento, seguite a stretto giro da insegnanti e dipendenti pubbliche (P.A. e istruzione con 12mila addette), cui si aggiungono altre 8mila madri attive nel settore della logistica, per dare solo le categorie principali.

Sempre stando ai dati, circa la metà (51,1%) delle mamme svolge un lavoro che potrebbe essere organizzato in modo agile, mentre resta ampia la platea delle lavoratrici (circa il 48,9%) che ne resta esclusa, lavoratrici che peraltro risultano la componente più fragile del mercato occupazionale (addette alle vendite, professioni a bassa qualificazione, artigiane e operaie). Si comprende allora quanto sia importante in questo momento rivedere diritti e doveri, in ufficio come a casa, per fare in modo che in un Paese in cui già l’occupazione femminile non raggiungeva il 50% non si realizzi un ulteriore passo indietro. «Un disastro», per usare le parole del sindacalista Uil Marco Bentivogli.

Del resto, i dati Istat di questo lockdown, pur non avendo uno spaccato locale, parlano chiaro: a livello nazionale, confrontando il trimestre gennaio-marzo 2020 col (ottobre-dicembre 2019), l’occupazione risulta in evidente calo (-0,4%, pari a -94mila unità) per entrambe le componenti di genere. Nello stesso trimestre calano anche le persone in cerca di occupazione (-5,4% pari a -133mila) e aumentano gli inattivi (+1,5% pari a +192mila unità). Il tasso di occupazione femminile, nel trimestre 2020, cala di 0,3% punti, mentre il tasso di inattività cresce di 1,5.

Anche le politiche attivate in questi mesi di lockdown non risultano avere incontrato il pieno interesse da parte della domanda. Stando sempre al report della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, a fronte di una richiesta molto ampia di congedi straordinari (al 28 aprile risultavano erogate 242.206 prestazioni a livello nazionale, fonte Inps) le domande di bonus baby sitting sono state decisamente più contenute 93.729 in Italia. Un dato «riconducibile alle difficoltà di individuare in tempi rapidi le relative professionalità, alla verifica della disponibilità e ai limiti posti dalle restrizioni sanitarie». Una ulteriore chiara spia di come il tema dei servizi sia decisivo per la ripresa del lavoro femminile.

 

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