Tre figli, lo smart working e niente scuola: «Voglio urlare»

Riflessioni dall’isolamento: ragazzi a casa fino a settembre, con buona pace dei loro bisogni e di quelli di chi si ne deve occupare
Sono tante le difficoltà di una mamma che deve lavorare, con i bambini in casa
Sono tante le difficoltà di una mamma che deve lavorare, con i bambini in casa
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L’Italia è un Paese meraviglioso. Mentre Germania, Francia e Spagna preparano la progressiva riapertura delle scuole dopo l'emergenza coronavirus, noi, a metà aprile, abbiamo già tagliato la testa al toro e deciso che piuttosto che faticare per studiare le migliori soluzioni per far riconquistare ai nostri figli un po’ di normalità li lasciamo a casa (almeno) sino a settembre. Con buona pace dei loro bisogni e di quelli di chi si ne deve occupare.

Si, perché se come me sei una madre lavoratrice che innanzi a sé ha la prospettiva di altri due mesi senza scuola, cui se ne aggiungono altri tre senza grest e campi estivi, l’unica cosa che ti verrebbe voglia di fare è urlare. Perché come al solito in questo Paese non facciamo che inneggiare al valore della famiglia e poi ogni volta la prendiamo a calci nel didietro. Perché se si ha una vaga idea di come funziona il mondo di bambini e adolescenti, si sa che questa parentesi forzata prolungata i nostri figli la pagheranno cara.

Perché ci sono mattine che ti svegli ed hai già le lacrime agli occhi a pensare alla giornata che ti attende, ma le lacrime le ricacci dentro e imbastisci un sorriso, come è giusto che la brava mamma-massaia-consolatrice italiana faccia. Ma che sorriso amaro. «Sono fortunata», mi ripeto, perché ho un lavoro che si presta ad essere effettuato in smart working, e così dal 7 marzo lo faccio dal salotto di casa

Peccato che la mattina i pc siano off limits, perché le mie due figlie hanno la scuola on line (3 ore scarse, ma come si dice in bresciano «piuttosto che niente, meglio piuttosto») e che il pomeriggio (quando potrei lavorare) non ho nessuno che mi guarda il piccolo, e spesso mi trovo a scrivere mentre lui mi si arrampica sulla schiena, o mi canta una canzone, o piange chiedendomi di giocare alla pista delle macchinine.

Queste settimane era a casa mio marito (che pure, diciamolo, avrebbe dovuto lavorare), ma dal 4 maggio resterò sola con il mio lavoro agile, che è agile solo perché sto diventando un’esperta nel telefonare e prendere mentalmente appunti mentre riempio la lavatrice, ascolto mia figlia Marta che ripete la lezione di fisica, verifico che Lorenzo non strozzi il cane e che Nina non stia troppo attaccata alle sue serie televisive. E allora, a chi chiederò aiuto quando proprio non ce la farò più?

Ho provato a fare la richiesta per il bonus baby sitter, ma a parte aver perso due ore per espletare una procedura per la quale ci vorrebbe una laurea in burocratese, i fondi stanziati basterebbero a coprire a mala pena l’1% delle domande che arriveranno, e 600 euro per 5 mesi di baby sitter farebbero ridere anche il meno avveduto dei contabili. Ho pensato al congedo parentale, ma di 15 giorni (su una media di 180 che ho di fronte) a cosa mi servirebbero? Ecco, alla fine, so che ad aiutare me (e molte altre come me) saranno ancora una volta loro: i nostri amati nonni. Ops, ma non erano proprio loro quelli che dovevamo tutelare?

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