80 anni GdB

Tra piombo e inchostro, la storia della tipografia del Gdb

Dalla nascita e fino agli anni ’80 il quotidiano è stato composto con mezzi, tempi e «riti» ripetuti da abilissimi specialisti: ecco come nasceva un quotidiano
Le linotype al pianoterra del GdB in via Saffi - © www.giornaledibrescia.it
Le linotype al pianoterra del GdB in via Saffi - © www.giornaledibrescia.it
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Tràta-tatà-ttatatà-ttatatà... calp-clap. Avevano suoni secchi e inconfondibili le linotype allineate lungo la parete della tipografia nel seminterrato di via Aurelio Saffi. Piombo e inchiostro. A vederla oggi, in un angolo della Sala Libretti, l’ultima superstite di quelle macchine lucenti, mette tristezza. Nessuno più sa come funzionava: dove andava il panetto di piombo da fondere, come i caratteri scendevano dal magazzino ad allinearsi per formare la riga, come le linee di piombo ancora roventi si aggiungevano, una sull’altra, a formare la colonna.

Per cento anni

Altri tempi, un secolo fa. Quello era il cuore della tipografia «a caldo», una fucina che cominciava a muoversi nel primo pomeriggio e raggiungeva il pieno regime fra la sera e la notte. La linotype era la macchina che aveva meccanizzato il processo e dal 1881 dominò la scena per cent’anni esatti. Sui suoi tempi era regolato l’intero cronometro del sistema. Il massimo della velocità possibile era tagliare i testi e distribuire le parti a più linotipisti contemporaneamente.

Con la linotype si componevano i testi, gli occhielli e i sommari. Solo la parte grande dei titoli era composta a mano, e questo spiega perché avessero quella forma. C’era tutto: l’introduzione nell’occhiello, la notizia nelle due righe di corpo più grande e il resto nelle due o tre righe di sommario. Tutto doveva quadrare: non erano ammessi spazi bianchi. E si doveva puntare alla sostanza: il fatto, la notizia, poco margine per i giochi di parole e comunque sempre con un rigore formale che era segno di serietà.

Verso la pagina

I testi arrivavano in tipografia dalla redazione del piano di sopra con il bussolotto della posta pneumatica. Gli articoli battuti a macchina, mentre i titoli erano scritti a mano su fogli orizzontali ricavati dai ritagli delle bobine. Titoli, spazi per le fotografie – poche perché i cliché in zinco richiedevano tempo e costi – e colonne di testo venivano poi impaginati nei telai sui banconi. Niente menabò al Giornale di Brescia, si andava ad ispirazione, anche perché non c’era spazio per troppa fantasia: apertura, spalla, taglio centrale. Brevi a chiudere.

Il tipografo Gianni Guerini e il giornalista Alberto Ottaviano preparano una pagina del GdB - © www.giornaledibrescia.it
Il tipografo Gianni Guerini e il giornalista Alberto Ottaviano preparano una pagina del GdB - © www.giornaledibrescia.it

«Senza un bel taglio centrale, la pagina è come un vestito della festa senza la cravatta», diceva Franco Maestrini, per trent’anni dominus incontrastato della tipografia (e non solo), con a fianco, alla sera, la grinta del «proto» Donati, mentre al pomeriggio era l’ironica battuta del Capo Giuliano (Simonini) a dare il tempo. La folta schiera dei tipografi veniva in gran parte dalla scuola severa degli Artigianelli. Ed erano i migliori, perché il lavoro al giornale richiedeva velocità e precisione. Era uno spettacolo vederli impaginare, comporre, ritagliare interlinee e fili. Tutto doveva essere a puntino quando il telaio finiva sotto il torchio e si imprimeva nel flano, lo stampo flessibile dove sarebbe poi stato fuso il guscio che andava sui rulli della rotativa. Un altro mondo, un’altra epoca. Serate che non finivano mai, solidarietà e amicizie inossidabili, battute feroci. Tipografia «a caldo» non identificava solo piombo fuso, ma anche un clima che solo chi ha vissuto può comprendere.

Offset e computer

Poi venne l’offset, e già era «a freddo». Il Giornale di Brescia, buon ultimo, abbandonò il piombo a metà degli anni Ottanta, ma scelse subito di adottare un sistema di rete di pc invece del cervellone con i terminali. La «questione tipografica» entrava in redazione e colse tutti di sorpresa.

L'attuale proto (Francesco Lussignoli) con alcuni collaboratori (Kevin Borghesi, Enrico Serena e Alice Chen)
L'attuale proto (Francesco Lussignoli) con alcuni collaboratori (Kevin Borghesi, Enrico Serena e Alice Chen)

La composizione digitale permetteva flessibilità sorprendenti: foto a colori, grafici, impaginazioni fantasiose, possibilità di cambiare rapidamente e in corso d’opera l’impostazione delle pagine.

Dalla metà degli anni Ottanta ai primi anni del Duemila durò questa fase di espansione: il giornale ampliò la sede, il testimone della tipografia venne raccolto da una nuova generazione, in testa Giovanni Bartolomini. Le rotative traslocarono nello stabilimento di Csq ad Erbusco.

La nuova tecnologia cambiò rapidamente il volto del giornale mentre si riduceva anche la dimensione dei fogli. I master disegnati dai grafici presero il posto dei telai sui banconi. Senza troppa fantasia, a voler essere sinceri. Per noi e per gli altri: un paio di studi grafici fecero sì che tutti i giornali italiani si assomigliassero, poi il mitico studio Cases da Barcellona rese simili gran parte dei giornali europei. Ma all’orizzonte già si affacciava il Selvaggio Web... Tràta-tatà-ttatatà-ttatatà... calp-clap.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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