Ecco come è stato dimostrato che Bozzoli non è morto nel forno
Durante la sesta udienza del processo per l’omicidio di Mario Bozzoli, imprenditore scomparso nel nulla da Marcheno l’8 ottobre 2015, è stata sentita come testimone l’anatomopatologa Cristina Cattaneo. La professoressa, affiancata dal collega Davide Porta, ha coordinato la squadra di 16 esperti che per due anni ha analizzato tutti i materiali raccolti all’interno e all’esterno della fonderia Bozzoli, l’ultimo luogo dove Mario è stato visto vivo e dove secondo l'accusa sarebbe stato ucciso dal nipote Giacomo, ora chiamato a rispondere di omicidio volontario e occultamento di cadavere.
Nella sua relazione in aula, davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Roberto Spanò, Cattaneo ha spiegato passo dopo passo come si sono svolte le operazioni di ricerca di elementi riconducibili a organismi umani e perché è da escludere che il corpo di Mario Bozzoli sia stato bruciato nel forno.
Come confermato dal consulente metallurgico Cesare Cibaldi, che ha lavorato sui forni fusori fin dall'inizio delle indagini, «sarebbe stato problematico buttare manualmente un corpo nel forno: a 900 °C avremmo assistito ad un’esplosione con 540 metri cubi di gas che si sarebbero sprigionati in poco tempo. E poi si sarebbe avvertito un forte odore di carne bruciata, non per un giorno ma per settimane».
Cibaldi, riferendosi all’assenza di tracce alla Bozzoli, ha citato come contraltare il delitto della Valtemper di Caionvico, nel 1992, quando Claudio Cominelli uccise gettandolo nel forno il fratello Walter. In quell’occasione, i resti furono ritrovati anche sul soffitto del capannone.Come avviene la cremazione di una salma
All’interno di un forno crematorio, sono necessarie circa due ore a 1.200 °C per cremare una salma, che come prima cosa va incontro a un processo di mummificazione. Innanzitutto si disidratano i tessuti, poi bruciano le estremità che infine si riducono in frammenti e poi il tronco. Resta sempre la componente mineraria, che si riduce a circa 3 o 4 chilogrammi di materiale osseo. Questi resti, che anche dopo la cremazione sono riconoscibili agli occhi di un esperto, vengono successivamente inseriti in una centrifuga a velocità estremamente elevata, che li «polverizza», riducendoli in frammenti da mezzo centimetro. Questi ultimi vengono tritati, raccolti e sigillati all’interno dell’urna funeraria che viene affidata ai parenti.
Come funziona sulla scena di un crimine
Quello spiegato finora è il processo di una cremazione eseguita in modo controllato, in una struttura specializzata. Un corpo a cui invece viene dato fuoco in un contesto criminoso è di certo sottoposto ad un abbruciamento meno efficace, che ha molte più probabilità di produrre resti e lasciare tracce. A supporto di questa osservazione, che può apparire banale ma non lo è, Cattaneo in aula ha mostrato le fotografie del luogo di un delitto, in cui è stata carbonizzata una persona a bordo di un furgoncino.
In quel caso, sul fondo del mezzo è stato rinvenuto parecchio materiale scheletrico, a riprova del fatto che ogni corpo bruciato lascia moltissimi residui. «Scegliere di occultare un cadavere bruciandolo è quanto di più difficile: la letteratura dimostra che per ridursi a frammenti di ossa, un corpo umano necessita di un tempo da una a quattro ore, che variano a seconda della corporatura della persona e della temperatura della combustione».
Come è stato raccolto il materiale da analizzare
Arrivati in fonderia a Marcheno il 26 ottobre 2015, il medico legale Cattaneo e i suoi collaboratori hanno scandagliato tutta l’azienda, dove sono rimasti quattro mesi per poi trasferire il resto delle operazioni alle caserme milanesi Montello e Mercanti. «Abbiamo analizzato tutto il materiale che non fosse polvere, seguendo il criterio di maggiore probabilità». Ovvero, dopo essersi consultata con Cibaldi, la squadra ha raccolto tutti i materiali possibili, partendo da quelli che avevano più probabilità di contenere resti umani.
Come prima cosa, hanno passato in rassegna i forni e i filtri di aspirazione, scrostando le pareti con un martello pneumatico e esaminando tutti i colaticci (informi residui di materiale colato). Per precauzione e nonostante fosse un’ipotesi molto remota, i tecnici sono entrati anche nei condotti di aspirazione, dove hanno fatto dei tamponi in caso un’esplosione avesse trasportato tramite condensa del materiale genetico.
Sono stati setacciati i mucchi di scorie accatastati nella «stanza nera», alcuni in loco e altri dopo essere stati trasportati dall’Esercito nelle caserme, raccolti in sacchi e cassonetti. In seguito sono stati smontati e analizzati i mulini per la macinazione dei minerali. Infine, hanno controllato i cumuli non bruciati e i detriti di ogni tipo, all’interno e all’esterno.
Le conclusioni
Al termine di due anni di analisi approfondita e sistematica del materiale, la conclusione dell’anatomopatologa Cattaneo è netta: «Non è stato trovato nessun elemento riconducibile a un organismo umano».
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