Cultura

Fabri Fibra: «I giri di parole non hanno nulla di artistico»

Parla il rapper che lunedì prossimo aprirà il Brescia Summer Music. «Sono qui per raccontare la realtà»
Il rapper Fabri Fibra, al secolo Fabrizio Tarducci  // PH. SHA RIBEIRO
Il rapper Fabri Fibra, al secolo Fabrizio Tarducci // PH. SHA RIBEIRO
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Aprirà il Brescia Summer Music 2018. Compito che certo non preoccupa Fabri Fibra, atteso in piazza Loggia lunedì prossimo, 9 luglio (alle 21.30; posto unico in piedi 25 euro; info www.bresciasummermusic.it), con il suo «Vacanze Tour». Il rapper di Senigallia, al secolo Fabrizio Tarducci, è abituato alle sfide: ha mosso i primi passi nei collettivi hip hop marchigiani ed esordito da indipendente su basi di Neffa, prima della svolta soul di quest’ultimo.

Ispirato dal rap statunitense (Eminem in testa), sovente autoreferenziale, con «Mr. Simpatia» (2004) Fabri Fibra ha realizzato un disco duro e scorretto, capace tuttavia di intercettare l’insoddisfazione rabbiosa di un’intera generazione di «provinciali». Passando a una major come Universal e ad una città come Milano, non ha perso lo spirito provocatorio e la voglia di infilzare obiettivi con rime affilate. Ne abbiamo saggiato la incontestabile capacità dialettica.

Fabri, continua a ritenersi il «rapper più odiato d’Italia» o è fase superata?
Forse è una fase che ha superato il pubblico. Quando sono entrato in una major, in molti non mi conoscevano e ascoltando i miei testi, dove la parte controversa e provocatoria era predominante, davano per scontato che io fossi quello che raccontavo. In dodici anni abbiamo fatto un bel cammino, sia io sia il pubblico. Di fatto, nella mia scrittura, cerco di non essere mai scontato; non sono qui per assecondare le persone, ma per raccontare la realtà attraverso ciò che vedo e sento. A volte questo approccio provoca frizioni, e mi va bene: nella musica, questo è addirittura un valore aggiunto.

Quali sono le differenze che ha riscontrato, passando dall’underground al mainstream?
La possibilità di usufruire del lavoro di più persone, che ora fanno parte della mia squadra. Nell’underground sei per conto tuo, sei tu il motore di tutto e sei praticamente da solo. Nel mainstream hai l’attenzione di più persone che ti propongono altre prospettive e punti di vista; anche se ovviamente il punto di partenza rimane la mia musica, quello che scrivo e che voglio dire. Il controllo che esercito sulla mia musica resta infatti totale.

Non è mai stato tenero (eufemismo) nei confronti della scena hip hop nazionale. Con le nuove leve è cambiato qualcosa?
Mi piace l’attitudine delle nuove leve. Alcuni (non tutti) vanno dritti per la loro strada e non cercano di compiacere ad ogni costo un pubblico che oggi, finalmente, non deve aspettare dai media il suggerimento di chi e cosa ascoltare.

Il suo essere diretto a tutti i costi le ha provocato scontri, polemiche, cause. Non si pente mai di non usare giri di parole?
Trovo che i «giri di parole» non abbiano nulla di artistico... Vanno bene per la politica o per il marketing. Non è la mia cosa. Il mio marchio di fabbrica è un altro e le persone mi riconoscono per questo, anche se non tutti riescono a distinguere la differenza tra le parole usate nelle canzoni o le parole, ad esempio, scritte su un giornale o pronunciate a un comizio. Danno loro lo stesso peso, come se il contesto non significasse nulla, mentre ovviamente non è così. Il rap sublima in rima le provocazioni che nella realtà sfocerebbero in inutili «giri di parole».

 

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