Strada facendo

Brescia Calcio, un naufragio annunciato

Forse la metafora di un territorio in bilico? A maggior ragione serve la consapevolezza che per rinascere non bastano i soldi o i risultati: serve una visione
Tifosi allo stadio Rigamonti - New Reporter Comincini © www.giornaledibrescia.it
Tifosi allo stadio Rigamonti - New Reporter Comincini © www.giornaledibrescia.it
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Percorrendo le strade cittadine e della provincia, impossibile, in questi giorni, non percepire l'amarezza, mista a incredulità, a tratti a rabbia e risentimento, per le vicende delle Rondinelle. Il possibile fallimento del Brescia Calcio – anche se, forse, non è detto che gli accadimenti nei prossimi giorni possano prendere pieghe diverse rispetto alla gran parte delle interpretazioni dai più proposte – non è solo la cronaca di una crisi sportiva e finanziaria, ma l'emblema di qualcosa di più profondo, un'eco dolorosa che risuona ben oltre i confini del campo da gioco.

Gianni Brera, il più grande cantore del calcio italiano, amava ricordare che il pallone è metafora della vita: e se è così, allora la parabola discendente del nostro amato Brescia potrebbe raccontarci, anche, la storia di una comunità in bilico, tra orgoglio e smarrimento, tra memoria e incertezza. Una società gloriosa, il Brescia, con oltre un secolo di storia alle spalle, che ha visto alternarsi tra le sue file di campioni come Virginio De Paoli, Roberto Baggio, Andrea Pirlo, Alessandro Altobelli, Evaristo Beccalossi, (a proposito: in bocca al lupo al grande Becca!) Pep Guardiola. E che nella fase più recente ha vissuto turbolenze dirigenziali e risultati sportivi sempre più deludenti. Peraltro, nonostante questa sia la terra dell'orgoglio smisurato e della convinzione che: «siamo i migliori» e «nessuno è bravo come noi...», con onestà intellettuale – lasciando perdere impietosi paragoni con i risultati della bergamasca Atalanta – non dobbiamo scordare che saremmo già retrocessi in Serie C due anni fa.

Ma tornando all'oggi, della reale o percepita nobiltà calcistica resta solo un guscio vuoto, minacciato dall'insolvenza economica, da gestioni discutibili, per usare un eufemismo e da una piazza sempre più disillusa. La squadra, un tempo orgoglio cittadino, riflesso di una provincia operosa e concreta, pare oggi lo specchio impietoso di un territorio che a tratti fatica a riconoscersi. Brescia è città del lavoro, del fare, dei molti primati non solo manifatturieri, ma anche di contraddizioni profondo. Con la sua squadra sull'orlo del baratro sembra perdere un simbolo fondamentale della sua identità. Quasi in continuità con le vicende banche e con altri episodi significativi che fanno dubitare dell'efficacia dell'ideale coriacea corazza identificata nella brescianità.

Il tifo non è solo passione: è appartenenza, è rito collettivo, è linguaggio comune. La divisa biancoceleste non è solo un simbolo sportivo, ma rappresenta anche un'emozione profonda. Vederla sparire o, peggio, vederla trasformarsi in una comparsa anonima, significherebbe minare uno degli ultimi arcaici e profondi legami tra la città e il suo popolo. Un popolo che, come scriveva Brera, trova nel calcio la propria rappresentazione mitica, il teatro delle proprie virtù e delle proprie frustrazioni. Il possibile fallimento del Brescia Calcio non è solo una questione contabile o sportiva, è un'emergenza culturale, un campanello d'allarme per una città che rischia di perdere un pezzo fondamentale della propria narrazione collettiva. Senza il Brescia, Brescia è un po' meno se stessa. E se il calcio è davvero una metafora della vita, allora forse serve ripartire proprio da lì. Dalla consapevolezza che per rinascere non bastano i soldi o i risultati: serve una visione. Serve ritrovare un senso comune, un'identità condivisa.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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