Il sequestro Soffiantini, la ricostruzione di quei 237 giorni

A distanza di oltre 27 anni dal rapimento entrato nella storia della nostra provincia, il nome di Giuseppe Soffiantini torna prepotentemente alla ribalta. L'ennesima operazione di ricerca di Attilio Cubeddu, l'ultimo latitante irriducibile della banda che tenne prigioniero l'industriale di Manerbio per 237 giorni, riapre una delle pagine più dolorose della cronaca bresciana.
Un lungo incubo, iniziato nel giugno del 1997 e conclusosi nel febbraio del 1998, la cui ombra si allunga ancora oggi sulla giustizia italiana.
Il sequestro
Erano circa le 22.30 di martedì 17 giugno 1997 quando tre banditi incappucciati e armati di pistola fecero irruzione nella villa di Giuseppe Soffiantini, situata in aperta campagna, a circa un chilometro da Manerbio, nella Bassa bresciana.

L'ingresso fu studiato: i malviventi tagliarono la rete di recinzione sul lato nord del giardino, adiacente a una stradina di campagna, probabilmente il punto dove avevano lasciato le loro auto.
In casa, Giuseppe Soffiantini, presidente della società Centro Fiera di Brescia e titolare del Gruppo Manerbiesi (con oltre 500 dipendenti e un fatturato di circa 50 miliardi di lire all'anno), si trovava con la moglie Lina (Adele Mosconi) a guardare la televisione, un concerto di Pavarotti, Carreras e Domingo. Il figlio più giovane, Paolo, che stava svolgendo il servizio militare a Brescia, aveva da poco lasciato la villa dopo aver cenato con i genitori.
I tre malviventi agirono con freddezza e professionalità. Dopo aver aperto una cassaforte, immobilizzarono la signora Soffiantini con manette e filo di ferro, legandole polsi, caviglie e collo, per poi rinchiuderla in un ripostiglio nello scantinato della villa. La donna, in quei drammatici momenti, supplicò i banditi di liberare il marito, ricordando la sua salute precaria e una recente operazione al cuore. Uno dei rapitori le avrebbe risposto: «Non preoccuparti, te lo facciamo ritrovare subito». Quindi, costrinsero l'industriale a seguirli su un'automobile, dileguandosi nella notte.
Le ricerche senza esito
L'allarme scattò solo la mattina successiva, quando la collaboratrice domestica, sentendo dei rumori, scoprì la signora Soffiantini imprigionata e diede l'allarme, avvisando subito il figlio Carlo. Quelle dieci ore di vantaggio permisero ai sequestratori di raggiungere indisturbati luoghi sicuri, rendendo le prime indagini estremamente difficili.

Carabinieri e Polizia furono immediatamente allertati in tutta Italia. Furono organizzati posti di blocco, intensificati i controlli sulle principali arterie di comunicazione, in particolare lungo le autostrade. Vaste operazioni di ricerca furono condotte anche sull'Aspromonte, in Calabria, con l'impiego di circa duecento carabinieri, elicotteri e unità specializzate del Reparto Cacciatori, ma senza alcun esito. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Luca Masini, procedettero nel massimo riserbo, e per giorni non ci fu alcuna versione ufficiale dell'accaduto, alimentando voci e illazioni. L'allora comandante dei carabinieri, colonnello Gagliardo, parlò di un «sequestro atipico» e di una «rapina atipica».
La liberazione e il ritorno a casa
Dopo 237 giorni di prigionia, il 9 febbraio 1998, Giuseppe Soffiantini fu finalmente liberato.
La notizia giunse quando l'industriale telefonò alla moglie Lina da una cabina telefonica nei pressi di Tavarnuzze, vicino all'uscita Firenze-Certosa sulla Cassia.
«Sto bene, non credete a quanto scritto nelle mie lettere perché mi costringevano a scrivere quelle cose. Dispiace che vi siate preoccupati», queste le sue prime parole. Rientrato a casa nella notte, liquidò le preoccupazioni del figlio Carlo riguardo le sue pastiglie per il cuore con un energico: «Ma chi se ne frega delle pastiglie! Sto bene e voglio tornare a casa!».
Per la sua liberazione furono pagati 4 milioni di dollari Usa, pari a 5 miliardi di lire.
Anonima sarda
Anonima sequestri o Anonima sarda. Così i giornalisti chiamavano i gruppi criminali sardi che tra gli anni '60 e '90 erano dediti ai sequestri di persona, ma anche a rapine a mano armata o ad assalti di vario tipo. L'Anonima sequestri rientra nel fenomeno del banditismo sardo (con origini molto antiche), che nella seconda metà del '900 è caratterizzato, appunto, dai rapimenti. Non si può considerare un'organizzazione di stampo mafioso, perché ha sempre avuto nette differenze con le associazioni a delinquere nate nell'Italia Meridionale: in Sardegna i gruppi nascevano in maniera estemporanea e non erano contraddistinti da uno specifico codice d'onore o da una struttura gerarchica.

Nel caso dell'Anonima sarda, a rendere molto difficile la ricerca delle persone sequestrare erano le caratteristiche geografiche dell'isola. Zone molto isolate – soprattutto aree interne e montuose – e sostanzialmente abbandonate o mai vissute erano luoghi ideali in cui nascondere le persone sequestrate. In molti casi la popolazione sarda è stata anche accusata di omertà e di connivenza con le forze criminali: testimonianza della complessità del fenomeno. Alla fine degli anni Sessanta venne istituita una commissione parlamentare d'inchiesta e successivamente – negli anni Novanta – il reato di rapimento a scopo di estorsione fu equiparato a quello di reato di associazione mafiosa. Un passo che molto probabilmente portò alla graduale fine dei rapimenti.

Tra i rapitori più conosciuti ci sono Graziano Mesina, Matteo Boe (che è riuscito ad evadere dal carcere dell'Asinara), Annino Mele, Giovanni Cadinu, Attilio Cubeddu (inserito nell'elenco dei latitanti più pericolosi d'Italia) e Mario Sale. Oltre al rapimento Soffiantini, un altro sequestro sconvolse l'opinione pubblica: quello di Fabrizio De André e Dori Ghezzi tra il 27 agosto e il 21 dicembre 1979.
La caccia al latitante
Tra il 1997 e il 1998 Manerbio e l'intera provincia vissero mesi di angoscia. Giuseppe Soffiantini era una figura affabile e benvoluta, senza nemici dichiarati. La sua attività imprenditoriale si estendeva anche in Sardegna, con la cooperativa Confezioni Corallo. La notizia del sequestro scosse profondamente il Paese, che per la prima volta si trovava di fronte a un simile evento.
Oggi, mentre le forze dell'ordine continuano a dare la caccia ad Attilio Cubeddu, l'ultimo pezzo mancante del puzzle, il ricordo di quei 237 giorni di prigionia rimane vivido.
La speranza è che la cattura di Cubeddu possa finalmente portare una chiusura definitiva a questa drammatica vicenda, offrendo giustizia completa a Giuseppe Soffiantini, morto nel 2018, e alla sua famiglia.
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