Marenzio e gli altri: musicisti bresciani profeti all’estero

Nessuno, si dice, è profeta in patria. Al motto non sfugge nemmeno la Brescia musicale: se è di pochi giorni fa la notizia del ritrovamento della tomba parigina del compositore lumezzanese Pietro Codini, che nella capitale francese emigrò e fece fortuna nel primo Novecento, non mancano gli esempi di virtuosi con la valigia, che per veder riconosciuto il proprio talento lasciarono la provincia di Brescia e anche l’Italia.

In principio, fu Luca Marenzio. Il compositore di Coccaglio, cui oggi è intitolato il Conservatorio cittadino, conobbe la fama tra Roma e Firenze, ma i suoi madrigali circolavano in tutta Europa. La definitiva consacrazione internazionale coincise con la chiamata del re di Polonia Sigismondo III, che gli affidò la direzione della cappella reale di Cracovia e Varsavia. Secondo alcune fonti, il clima polacco non giovò però alla salute del compositore, che dopo due anni tornò a Roma per morire nel 1599, a soli 46 anni, nei giardini di Villa Medici.

In Germania
Emigrante oggi meno noto, nello stesso periodo, fu Antonio Teodoro Riccio, che nel 1567 fu maestro di cappella nella chiesa di San Nazaro, ma poco più tardi lasciò Brescia per il nord Europa. Dopo una tappa a Vienna, approdò in Germania, ad Ansbach, dove fu maestro di cappella per il margravio Georg Friedrich. Successivamente si trasferì a Königsberg, dove abbracciò la fede protestante. In Germania, dove la polifonia italiana destava profonda ammirazione, le sue composizioni furono molto apprezzate e gli valsero lauti guadagni. Amava firmarsi «Brixianus Italus», l’italiano di Brescia. Morì ad Ansbach, si dice ricchissimo.
Lasciando il Rinascimento per l’età barocca, s’incontra la figura di Biagio Marini, violinista prodigioso e compositore. Da Brescia si trasferì prima a Venezia, dove suonò sotto la guida di Claudio Monteverdi, e poi in varie città italiane. La chiamata dall’estero giunse nel 1623, quando Marini entrò al servizio dei duchi di Baviera a Neuburg an der Donau. In Germania rimase, con alcuni intervalli, per circa vent’anni, perfezionando la tecnica violinistica tedesca ed estendendo l’uso delle doppie e triple corde, innovazioni di cui avrebbe fatto tesoro la successiva generazione di maestri dell’archetto.

Tra le storie più affascinanti di virtuosi viaggiatori, spicca poi quella di Bartolomeo Bortolazzi. Formidabile mandolinista, dalla natia Toscolano conquistò Vienna, capitale della musica. Contribuì a diffondere la moda del mandolino – che contagiò anche Beethoven – e Hummel scrisse per lui un concerto. Dopo alcuni anni a Londra tornò in Austria, ma a partire dal 1809 sembra scomparire nel nulla. Oggi sappiamo che Bortolazzi iniziò una nuova avventura, trasferendosi in Brasile, tra San Paolo e Rio de Janeiro, dove scrisse musica nello stile locale – la modinha – e si dedicò anche alla chitarra. In Brasile morì, probabilmente nel 1846.
Globe-trotter del XIX secolo
Non abbandonò mai l’Europa, ma la esplorò da protagonista per oltre vent’anni Antonio Bazzini. Incoraggiato da Paganini, portò il suo violino a Lipsia – dove incantò Robert Schumann – e poi a Parigi, Londra, Varsavia, Copenhagen, Madrid. Fu tra i pochi compositori italiani dell’epoca a dedicarsi alla musica strumentale più che a quella operistica, mentalità cosmopolita che lo rese più famoso all’estero che in patria. Quando la vita del violinista globetrotter lo stancò, tornò a Milano – dove poi morì – per insegnare composizione. Divenne direttore del Conservatorio e maestro di un certo Giacomo Puccini.

Dedito alla musica strumentale più che al melodramma, e per questo più amato oltreconfine, fu pure il salodiano Marco Enrico Bossi. Organista talentuosissimo, a diciotto anni già si esibiva con successo a Londra e negli Stati Uniti. In Italia si divise tra Conservatori e licei musicali, ma come concertista fu più spesso all’estero. Acclamato in particolare oltreoceano, proprio su una nave, di ritorno dall’ennesima tournée statunitense, morì per un’emorragia cerebrale.
Il maestro

Concludiamo almeno citando un ultimo caso celebre di musicista bresciano morto all’estero. Stiamo parlando del più grande pianista del Novecento, Arturo Benedetti Michelangeli, che si spense a Lugano trent’anni fa.
In questo caso, però, la carriera non c’entra: Michelangeli lasciò l’Italia per la Svizzera in polemica con un’assurda vicenda giudiziaria. In Italia tornò a suonare solo una volta, per beneficenza, nel 1980. Dove? Naturalmente, a Brescia.
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