Benedetti Michelangeli secondo Conter: il genio, l’uomo, il maestro

Pubblichiamo un estratto dell’articolo con cui, trent’anni fa, il maestro Mario Conter, amico e allievo di Benedetti Michelangeli, ne tracciava le fasi principali della vita e dell’opera.
Quando lo conobbi aveva 17 anni e abitava in una grande casa di via Lattanzio Gambara che ora è scomparsa. Lui era già un grande pianista. In casa c’era la madre, donna energica quant’altre mai, il padre maestro Giuseppe, sempre dolce, che la madre chiamava Beppe e il fratello violinista Umberto che per tutti era Nanni. Per anni frequentai quella casa che per me significava un’isola felice, dove imparavo a suonare il pianoforte ma soprattutto assistevo alle ore di studio del mio Maestro. Studiava, studiava senza stancarsi mai, ed io rimanevo lì attonito, come fossi in un altro mondo, come se fossero aperte le porte del cielo.
Quei suoni puri, teneri, limpidi, diafani che si accendevano improvvisamente a riempire la casa, carezze e violenze in alternanza, quel suono indimenticabile che nessuno mai più saprà ridarci, io avevo il privilegio di ascoltarlo per ore e ore, soprattutto di notte, quando il mistero si fa intenso, palpabile. L’abitudine di suonare di notte lo accompagnerà per sempre nei lunghi anni della sua vita. Spesso mi accompagnava a casa, a piedi naturalmente, e si parlava di musica e d’altro. Non lunghi discorsi, anzi. Finché giunse come un fulmine a ciel sereno la notizia della vittoria al Concorso internazionale di Ginevra, nel ‘39. Tutti i giornali ne scrissero, di colpo divenne un divo, ricercatissimo dovunque. Lui, Ciro come lo chiamavamo, si comportava esattamente come prima, nella sua riservatezza dietro la quale nascondeva la sua fierezza.
Fin da allora, ragazzo inconfondibile, alto, pallido, portamento signorile, egli sapeva celare i propri sentimenti per sorprendere quando metteva le sue bellissime e grandi mani sulIa tastiera. Non manifestava né sorpresa né tantomeno un turbamento a qualsiasi notizia. Imperterrito sempre, salvo quando si divertiva a raccontare qualche barzelletta. Ma erano momenti rari. Si capiva che lui era un predestinato. Forse sognava la grandezza cui giunse poi, forse non pensava che alIa musica senza interessarsi dell’effetto sugli altri, forse il suo non era un calcolo ma la natura stessa che lo spingeva a comportamenti tanto insoliti. Forse, forse... Gli è che a nessuno era dato di definirne il carattere.
Era capace di atti di umiltà come di gesti di impavido orgoglio. Difficile da capire anche per chi, come me, gli fu molto vicino. Ma quando si trattò di aiutare un pianista triestino, suo amico, non esitò a devolvere i proventi di un concerto a suo favore. E quando uscì un libro, negli anni Sessanta, tutto contro la sua arte interpretativa, mi confidò sottovoce «e se avesse ragione?». Questi sono fatti, non parole, e i fatti dicono che Ciro possedeva un’anima sensibilissima, vibratile, incapace di adattarsi alle feroci diatribe, alle faide che si svolgevano intorno a lui, ai compromessi. Appariva sicuro di sé, eppure era preso dal dubbio, sembrava sordo ai bisogni altrui ma se poteva aiutare sapeva come fare.
Anche le lezioni private che impartiva: non volle mai un soldo. Eppure non c’era prezzo per le cose essenziali, fondamentali che diceva. Anche questi sono fatti. Ora i ricordi mi si affollano nella mente e sono sotto l’effetto della angoscia. Perché Ciro, il mio carissimo Ciro non c’è più. E’ scomparso improvvisamente dalla scena terrena. Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo nei concerti non potrà facilmente dimenticarlo. Quando suonava non v’era teatro che potesse contenere la folla degli aspiranti. Qui al Teatro Grande, quante volte l’abbiamo visto? Fra gli applausi più frenetici che mai ci sia stato dato di sentire usciva quasi furtivo e si metteva alla tastiera. Nel silenzio più profondo, lasciando qualche istante di intervallo fra il suo arrivo e l’inizio vero e proprio del concerto per assicurarsi che tutto fosse fermo, come impietrito.
Egli d’un subito con quelle sante mani portava il pubblico nel regno dei sogni che solo lui poteva raggiungere. In sala si percepiva lo sgomento di tutti. Come si fa a suonare così? Si chiedevano. Se era la Sonata op. 35 di Chopin, calava sul pubblico il senso di morte come un’ala oscura al momento della Marcia funebre, e si rimaneva senza fiato nel finale misterioso che nessuno avrebbe mai saputo ripetere. Se si trattava di un valzer, di una mazurka, di un notturno, ecco le note cantare un tenero canto, se era il Carnaval op. 9 di Schumann, non c’era edizione che lo eguagliasse nella varietà infinita del tocco e delle intenzioni musicali nel vorticare dei suoni. E le Ballate di Brahms, così ostiche per gli altri ma chiarissime per lui che le ridava con la semplicità che conquistava, sublimandole?
E i Concerti? Chi non ricorda il Concerto di Liszt, uno scintillio inconcepibile di note, e il Concerto di Grieg, e quello di Ravel: qui eravamo alle stelle. E Mozart, il «SUO» Mozart dei Concerti, e Scarlatti che non sentiremo più con quella scintillante naturalezza. Arturo Benedetti Michelangeli era un perfezionista, non accettava che una sola nota fosse sbagliata. Ma il perfezionismo si propagava a macchia d’olio su tutto il suo repertorio nella ricerca della frase detta secondo il suo modo di sentire, un modo tornito e limpido, con il senso esatto dell’espressività più alta e più pura.
C’era in lui tutto un mondo che premeva verso la luce della verità, per questo le folle lo osannavano: perché lui sapeva condurre l’anima della gente laddove ognuno vorrebbe trovarsi, al di fuori e al di sopra degli affanni quotidiani. Nella catarsi ognuno palpitava per l’emozione di toccare iI miracolo, ognuno sentiva che quei momenti di gioia infinita, di pace o di dolore, non avrebbero trovato ripetizione. Arturo Benedetti Michelangeli non amava suonare troppo spesso in pubblico. Aveva bisogno di riflettere, di approfondire, sicché ogni concerto si trasformava in avvenimento. Viaggiò molto, ma fino al quinto anno del Festival che recava il suo nome, amava la sua città. Poi accadde qualcosa che lo allontanò dall’Italia. Fece due puntate, l’una in Vaticano, l’altra a Brescia in onore di Paolo VI, poi basta.
Suonò all’estero, soprattutto a Parigi e Londra. L’ultimo suo concerto avvenne ad Amburgo il 7 maggio 1993. Poi più nulla, se non l’eco di numerosi dischi venduti a centinaia di migliaia. Qualche anno fa ebbe a subire un’operazione molto difficile a Bordeaux alla fine di un concerto. Fu salvato in extremis, ma da allora il cuore non funzionò più come doveva. La causa della sua morte va ricercata, probabilmente, in quel tremendo colpo. Quando scompare un Artista della sua statura, il mondo si inchina sgomento, perché l’umanità perde qualcosa che dava un senso alla vita. Si è spento nel sonno, senza soffrire, prima di compiere il più lungo viaggio. Che Dio accolga fra le sue braccia l’angelo che passò sulla terra offrendo tante emozioni agli uomini. Con il cuore in gola, mi sembra incredibile di dover dire: Addio, mio immenso Maestro.
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