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Moss: «La mia Germani, la piaga del razzismo e la paternità»

«Siamo tornati a giocare di squadra, fa la differenza. Di fronte a insulti esagerati potrei uscire dal campo»
David Moss. Capitano della Leonessa dal novembre 2016 - Foto © www.giornaledibrescia.it
David Moss. Capitano della Leonessa dal novembre 2016 - Foto © www.giornaledibrescia.it
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È già il quarto campionato con David Moss a Brescia e ormai la città l’ha adottato come un simbolo. Lui e le sue treccine. Lui e i suoi tatuaggi. Lui e quegli occhi della tigre che a 35 anni riesce ancora a mettere in campo. Capitano, mio capitano. Come il professor Keating in quell’attimo fuggente che commuove, l’alfiere della Germani Leonessa Brescia si alza in piedi sulla cattedra perchè ha qualcosa d’importante da dire.

Sì va bene il basket, ma c’è anche l’argomento del razzismo che gli sta a cuore, in un momento nel quale è tra i più caldi nel mondo dello sport italiano, e poi c’è una paternità dove preferisce non entrare troppo nei dettagli, ma della quale sente comunque il bisogno di dire qualcosa con l’orgoglio che solo un padre può provare.

David, la vittoria di domenica contro Venezia ha mostrato una Germani diversa. Qual è stata la chiave? «Stiamo giocando un basket diverso, meno regolare rispetto a prima, i nostri allenatori stanno facendo un buon lavoro, hanno capito cosa ci serviva. Già a Bologna c’erano stati dei miglioramenti e con una settimana in più per stare insieme e allenarci duramente abbiamo raccolto i frutti. Non è stata una bella partita quella con Venezia, anzi, ma abbiamo giocato insieme. Pur lasciando spesso la palla in mano ad Hamilton e Cunningham, i nostri terminali offensivi, siamo stati squadra».

Com’è stato per lei dover giocare più di 30’ da playmaker? «Mi era già successo a Teramo, lo feci per tre partite di fila con Capobianco allenatore perchè mancavano i nostri registi Poeta e Piazza. Domenica mi sono trovato bene, sono contento quando posso stare tanto in campo. Già nelle partite precedenti avevo giocato qualche minuto da playmaker, ora la fiducia è aumentata».

Domenica al PalaLeonessa arriva Varese con una tifoseria che da sempre la prende di mira. È pronto a sopportare il solito vomito d’insulti e cori beceri, che a volte prendono di mira anche il colore della sua pelle? «Non ho ancora capito se lo fanno, e non sono purtroppo l’unica tifoseria in Italia, perchè mi temono come giocatore e perchè indossando le maglie di Siena e Milano sono stato un loro storico rivale oppure perchè sono dei razzisti. In quest’ultimo caso non sarebbe un mio problema, ma un problema loro. Io non mi vergogno della mia pelle mentre un razzista deve vergognarsi di esserlo».

Lei gioca in Italia ormai dal 2007, ci ritiene un popolo di razzisti? «Qualcosa di strano c’è... Non è normale che in ogni posto in cui ho giocato (Siena, Teramo, Jesi, Bologna e Milano prima di Brescia, ndr) i primi giorni in cui camminavo per la città sono sempre stato fermato dalla polizia che mi ha chiesto i documenti. È successo anche a Brescia e lo pubblicai nelle mie storie sui social. Forse è per via dei miei capelli, forse è per i tatuaggi, ma chissà come mai quando scoprono che sono un giocatore di basket professionista nessuno mi disturba più. Ho diversi amici neri, simili a me, con treccine e tatuaggi, e vengono fermati spesso. Quando parlo con loro mi dicono che l’Italia non è un bel posto per chi ha la pelle come la nostra. È successo anche a Mike James, dell’Olimpia Milano, di essere fermato qualche giorno fa mentre tornava con le borsine dal supermercato. Poi quando l’hanno riconosciuto è stato lasciato andare. Credo ci sia un po’ di prevenzione, questo sì».

In Italia però c’è anche tanta criminalità, non pensa che dipendano anche da questo i controlli? «A delinquere è gente di ogni colore e religione. Quando vedo i barconi con mamme e bambini che affondano mi si stringe il cuore perchè penso che se una persona lascia la propria terra vuol dire che è proprio disperata, non lo fa per creare disturbo ad altri. Anche negli Usa c’è una politica rigida contro l’immigrazione e quando torno nella mia città, Chicago, me ne accorgo. Penso che se non fossi riuscito a diventare un giocatore di basket avrei potuto essere io in quelle condizioni e, magari, pur di mantenere la mia famiglia avrei fatto cose che non vanno fatte. Nel mondo penso che ci debba essere spazio per tutti, ma il problema è che ci sono poche persone con tanti soldi e tante che muoiono di fame».

L’allenatore del Napoli Carlo Ancelotti sta sensibilizzando il mondo del calcio a fermare le partite in caso di cori razzisti, che ormai sono purtroppo sempre di più negli stadi. Lei sarebbe disposto a fare altrettanto? «Di solito tendo a concentrarmi sulla partita, ma certi cori li sento anch’io. Se domenica i tifosi di Varese dovessero tornare a prendermi di mira come al solito mi piacerebbe dire a ognuno di loro "perchè non ne parliamo da uomo a uomo, perchè non mi spieghi dov’è il tuo problema?". E non intendo il ricorso alla violenza, intendo il bisogno di confrontarsi e capire. Certo se un giorno la situazione dovesse degenerare e magari dagli spalti dovessero tirarmi una buccia di banana, com’è già successo nel calcio, non avrei dubbi: lascerei il campo per protesta, anche se mi costerebbe tanto perchè io voglio sempre giocare e vincere. Ma bisogna trasmettere esempi positivi alle nuove generazioni».

A tal proposito, la si vede sempre più spesso per le vie di Brescia mentre spinge un passeggino... «È mio figlio e in questo momento è la mia priorità. Tutto il resto viene dopo. Mi ha cambiato la vita, ma ha solo 50 giorni e quindi preferisco non parlarne più di tanto. Quando sarà il momento ve lo farò vedere».

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