Addio Carlo Mazzone: iconico e leggendario ha saputo rendere grande il Brescia

Carlo Mazzone è morto ieri ad Ascoli. Aveva 86 anni. Romano di Trastevere, è stato giocatore con la parentesi più significativa, di 9 anni, all’Ascoli. E da Ascoli, è partita anche la sua carriera da allenatore. Si è seduto poi sulle panchine – in alcuni casi anche per due (o tre) volte - di Fiorentina, Catanzaro, Bologna Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, Napoli, Perugia, Brescia (dal 2000 al 2003) e Livorno dove ha concluso la sua carriera nel 2006. È suo il record di panchine in serie A: 792. Sono invece 1.278 quelle totali. I funerali verranno celebrati domani alle 16.30 nella chiesa di San Francesco in piazza del Popolo ad Ascoli.
Ore e ore trascorse a cercare un incipit di sostanza, a effetto, in grado di lasciare il segno. Una disperata ricerca di parole che potessero essere abbastanza «grandi», per somigliargli un po’. Tempo buttato. Basta iniziare così: Carlo Mazzone. È tutto lì dentro, in quel nome e quel cognome che sono uno scrigno: dentro c’è tutta la grandezza della quale si può aver bisogno. Per il resto, per catturare con una definizione colui che è stato molto, ma molto più di un allenatore, occorrerebbe inventare parole nuove.
Scrivere un nuovo vocabolario, avendo cura però di trasferire dal vecchio volume parole come onestà, umanità, sincerità, lealtà, conoscenza, sagacia, semplicità. E famiglia. Soprattutto famiglia. Quella che fino all’ultimo si è stretta attorno a lui, negli ultimi anni sempre più debole e provato, ma protetto con cura dalla sua squadra nella vita: i figli Massimo e Sabrina, i nipoti Vanessa (che lo aveva reso anche bisnonno), Iole (attrice, c’era lei dietro al progetto del docufilm dedicato al nonno «Come un padre» e Alessio.

Ma soprattutto lei, la figura più influente - insieme a mamma Iole - nella sua storia di uomo e professionista trapiantato da Roma ad Ascoli per amore: la signora Maria Pia. Una figura al limite del mitologico, come la moglie del tenente Colombo. «A casa, l’allenatore è lei» amava ripetere anche in conferenza stampa il «Sòr Carletto» o il signor Magara».
Uno che in un carriera in cui ha collezionato 1.278 panchine, 792 delle quali in serie A (nessuno ancora come lui), ma che pure non ha messo trofei in bacheca. O forse no: «Perché io a Catanzaro ho vinto lo scudetto dell’onestà» ripeteva a ogni pié sospinto per ricordare di quando quella sua squadra ritrovò la serie A ai danni di un Milan retrocesso a tavolino. Trasversale come nessuno: romano e romanista, ma rispettato e pure segretamente amato anche dai laziali. Basta questo per attribuirgli anche un’ideale Champions League dell’amore della gente, quella che ha sempre capito che i valori di Mazzone non sono mai stati negoziabili. Né per lui, né per il suo «fratello gemello, quello che mando in panchina tutte le domeniche, quando mi trasformo». Nemico dei potenti e degli arroganti.
La storia
Ogni capitolo della vicenda umana e lavorativa di Mazzone - l’uomo ha sempre coinciso con l’allenatore, in un quadro di coerenza totale, per tenere fede alla quale sapeve anche diventare asprissimo - meriterebbe chilometri di approfondimenti. Ogni tappa, uno o mille aneddoti. Come quelli dei quali ancora ci nutriamo, a distanza di 20 anni a Brescia. Nella memoria di quel Brescia. Ovvero il Brescia dei Brescia. Il più bello di sempre. Il Brescia di Baggio e Mazzone che seppero creare un connubio - sul campo di tre anni, ma poi andato oltre - speciale. Poi fu anche il Brescia di Guardiola. E di una sequela infinita di campioni. Fu il Brescia che mister Carlo condusse al risultato più alto di sempre: al settimo posto, nell’epoca del calcio delle «sette sorelle».
Formidabili quegli anni. Nei quali Mazzone lasciò un’impronta a tuttotondo nell’ambiente. Che costrinse a crescere: non c’era un’opzione diversa da quella per provare a tenere il suo livello di professionalità così come il suo livello di argomentazioni. E se non eri pronto, che tu fossi un dirigente, un giocatore, un giornalista, era pronto a farti a fette. Era un omone, metteva soggezione: ma sapeva sempre quando e come tendere la mano. Non era facile avere a che fare con lui. O magari anche sì: dipendeva da quel che riconosceva, o non riconosceva, in chi si ritrovava di fronte di volta in volta.
Niente sconti

Non all’ultimo dei giovani, non al primo dei big: anche a Bagggio incuteva timore. E nemmeno agli amici: arrivò anche ad attaccare frontalmente l’allora Ct Giovanni Trapattoni, suo sodale, che non convocò Baggio ai Mondiali del 2002. Ne nacque uno scontro diplomatico. Come di scontri-confronti ne ebbe a non finire con Gino Corioni: un altro connubio non replicabile. Il rischio, ora, è di mettersi a raccontare un po’ di sé con la scusa di parlare di chi non c’è più. Non possiamo fare questo torto a chi peraltro non merita di passare alla storia solo per quella famosa corsa e di essere vissuto come una macchietta.
No, a Mazzone vanno riconosciuti anche i meriti del «signor» allenatore che è stato: innovatore, anche inventore (Pirlo davanti alla difesa è stata cosa sua). Modernissimo: anche nel linguaggio. Se ancora oggi, pure nel calcio della Saudi League, è ancora e sempre vero che «difensore scivoloso difensore pericoloso» e che «sul campo c’è scritto tutto, basta saper leggere». In poche parole: è stato papà dei numeri 10 (Baggio, Totti, Pirlo...), ha scolpito gruppi e spogliatoi, ha forgiato persone. Tu chiedi chi erano i Beatles, ma chiedi anche chi era Carlo Mazzone. E ti risponderanno: una leggenda. Per sempre grazie.
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