Una vita da rileggere

Mio padre ha tenuto diari per tutta la vita. Scriveva fitto su agende grandi o piccole, che all’epoca comprava in cartoleria quando non capitava che la banca gliene regalasse una a gennaio. Li teneva fin da prima che io nascessi e che cosa fosse scritto lì dentro dubito fosse noto ad altri che a lui. Una volta finita l’agenda, se non era bastata, passava a un quaderno. Man mano voltava l’ultima pagina, riponeva il diario in una scatola nel sottoscala. Un pomeriggio, da piccolissima, andai a prenderne una per il piacere di rigirarmi tra le mani quelle pagine irrigidite dal passaggio della penna, ma se ne accorse subito e non gli piacque. L’unica pagina di cui conoscevo il contenuto era quella con la cronaca della mia nascita. Ogni tanto gli chiedevo di rileggermela e lo faceva, ogni volta promettendomi che un giorno quell’agenda del mio anno sarebbe stata mia.
Ero una figlia tardiva ed ero piccola, non del tutto consapevole di ciò che la mia speranza comportava, ma non vedevo l’ora di allungare le mani in quello scrigno di righe vergate con minuzia. Continuai a vederlo scrivere, con gli occhiali sulla punta del naso e quella postura speciale che era come un’impronta digitale. Ogni figlio ha in mente un’immagine indelebile del proprio genitore e per me la sua era quella. Mi ero laureata da poco quando a mio padre venne diagnosticato un tumore. Erano tempi remoti e si trattava di una diagnosi che suonava come una condanna. Cercammo di minimizzare la gravità e di occultare i referti più pesanti, ma come falsarie e ladre non funzionavamo bene né io né mia sorella e nemmeno mia madre.
Insomma, provavamo a contenere una bugia la cui evidenza dilagava per tutta casa. Un giorno d’inverno rientrai e lo trovai in giardino, in piedi davanti al trespolo per il barbecue. Le fiamme erano vivaci e faville e fumo facevano a gara per impestare l’aria. Stava bruciando tutte le sue memorie. Aveva la stessa aria assorta di quando le metteva su carta. Aveva quasi compiuto il suo lavoro e non c’era molto da salvare. Gli chiesi perché lo avesse fatto. Provò a buttarla in ridere, dicendo che il fuoco purifica. Credo mi si leggesse in faccia che non ero capace di stare al gioco. Il mio silenzio lo spinse a spiegarsi: ognuno ha la propria vita e se ne fa carico. I figli si crescono, si consigliano, ma non si può mettere la propria esistenza sulle loro spalle.
Nelle sue intenzioni, quello era un modo per liberarci. Posso, da adulta, pensare per giunta che non gli andasse del tutto l’idea di dipanarci sotto gli occhi i suoi pensieri più intimi. Una riservatezza legittima, anche se parecchie volte mi sono dispiaciuta di non averlo potuto ritrovare nella sua grafia aguzza, che avevo studiato per imitarne la firma (alzi la mano chi no ha peccato di falsificazione almeno su una giustifica a scuola!). Sopravvisse per qualche mese a quel falò. Adesso che sono adulta e ho sulle spalle gli anni e i lutti di una vita più che matura, penso che ciascuno abbia un proprio modo di fare ordine prima di lasciare questo mondo. Però è da più di trent’anni che penso sia bello trovare un momento della giornata per mettersi a tu per tu con i propri pensieri. Fosse solo per avere qualcosa da mandare in fumo prima di salutare tutti.
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