Tra archeologia e fede nella grotta di Betlemme

La scelta di scavare «tra le pietre e le rovine, tra gli oggetti» insegna che «nulla di ciò che è stato toccato dalla fede è insignificante». E che «non si può comprendere fino in fondo la teologia cristiana senza l’intelligenza dei luoghi e delle tracce materiali che testimoniano la fede dei primi secoli». Lo scrive Leone XIV nella Lettera apostolica pubblicata nei giorni scorsi, in occasione del centenario del Pontificio istituto di archeologia cristiana. Il concetto può avere un’applicazione più ampia: l’intelligenza dei luoghi e delle tracce materiali è fondante per la consapevolezza di noi stessi e della nostra stessa vita. Nel contesto religioso cristiano raggiunge l’apice.
Secondo il Papa l’archeologia è una scuola di incarnazione perché «ci ricorda che Dio ha scelto di parlare in una lingua umana, di camminare su una terra, di abitare luoghi, case, sinagoghe, strade». Aggiunge Leone XIV: «La tomba vuota, la casa di Pietro a Cafarnao, le tombe dei martiri, le catacombe romane: tutto concorre a testimoniare che Dio è entrato davvero nella storia e che la fede non è una filosofia, ma un cammino concreto nella carne del mondo». L’archeologia «educa a una teologia dei sensi: una teologia che sa vedere, toccare, odorare, ascoltare». È una «scienza della soglia», che «sta tra la storia e la fede, tra la materia e lo Spirito, tra l’antico e l’eterno».

La lettera apostolica di Leone XIV assume un significato particolare in questi giorni, perché proprio subito dopo le feste di Natale, nel luogo dove la tradizione e la storia indicano sia avvenuta la nascita di Gesù, nella Grotta di Betlemme, inizieranno i lavori di restauro.
Le prime operazioni, anche qui come al Santo Sepolcro di Gerusalemme, riguarderanno proprio gli scavi e le ricerche archeologiche. Lo scopo principale sarà quello di capire quale fosse l’ingresso originario della grotta, che dovrebbe essere possibile identificare perché probabilmente abbastanza ampio da consentire l’ingresso anche agli animali. Si scaverà seguendo la roccia per avere conferme. Così spiegano i tecnici della ditta italiana che ha avuto il prestigioso incarico.
L’intero complesso della Natività di Betlemme, fin dal 2013, è oggetto di importanti lavori di ricerca e restauro, in un progetto denominato «Bethlem Reborn», che ha già portato mosaici, marmi e decorazioni della basilica allo splendore dei tempi migliori. I lavori hanno avuto anche un grande rilievo archeologico con il ritrovamento di importanti reperti della prima basilica cristiana, che risale ai tempi dell’imperatore Costantino e di sua madre Elena, e dei successivi interventi in epoca bizantina e poi crociata.

A Betlemme, come a Gerusalemme, i lavori sono ripresi dopo un lungo periodo di stallo. Sulla Basilica della Natività gli ultimi interventi importanti risalgono a seicento anni fa. Anche qui il progetto vede la stretta collaborazione fra le Chiese cristiane, fra ortodossi, latini e armeni, che stanno vivendo una fase di sintonia impensabile fino a poco tempo fa. Lavori complessi, svolti in stagioni tribolate, prima per il Covid e ora per il conflitto che da Gaza si è di fatto allargato all’intero territorio palestinese. Un clima che richiama quello trovato da San Francesco nel suo viaggio in Terra Santa, ottocento anni fa.
Al ritorno, il santo di Assisi organizzò, a Greccio, il primo Presepe. E anche lo spirito non è diverso: il primo Presepe non voleva essere, infatti, una sacra rappresentazione, ma una sorta di allestimento performativo che puntava a fondere l’immagine con la realtà. Parlava (e parla) al cuore della devozione popolare, a tutti. Utilizzando persone e cose, perché l’esperienza diventasse concreta. «Vedere, toccare, odorare, ascoltare...» per citare le parole di Papa Prevost sull’archeologia.
Peraltro, il ruolo dei Francescani nelle ricerche archeologiche in Terra Santa è stato essenziale, con un impegno secolare e magistrale. Ai Francescani, da più di otto secoli, la Chiesa latina ha affidato la Custodia di Terra Santa. E da altrettanto tempo i seguaci di Francesco svolgono un ruolo nevralgico, a favore della pace, nell’infuocato Vicino Oriente. L’obiettivo è di mantenere quei luoghi aperti e accessibili per tutti. In questo contesto assumono valore le parole di Leone XIV quando sottolinea che l’archeologia «parla ai credenti che riscoprono le radici della loro fede», ma anche «ai lontani, ai non credenti, a quanti si interrogano sul senso della vita e trovano, nel silenzio delle tombe e nella bellezza delle basiliche paleocristiane, un’eco di eternità». Alla Chiesa ricorda «la propria origine».
Non si tratta di un’operazione nostalgia: «La vera archeologia cristiana non è conservazione sterile, ma memoria viva». Aggiunge Leone XIV: «Dietro ogni oggetto c’è una persona, un’anima, una comunità; dietro ogni rovina, un sogno di fede, una liturgia, una relazione». In un mondo segnato dal consumo e dalla velocità, esorta a uno sguardo «paziente, preciso, rispettoso». Quanto ne avremmo bisogno, non solo a Natale.
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