Bene il taglio dei tassi della Bce, ma da solo non basta

La decisione di abbassarli al 2% può stimolare un’economia debole come quella europea. Pesano però le incertezze globali, militari, politiche ed economiche
La presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
La presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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La Bce ha ridotto il tasso di interesse di riferimento per il sistema finanziario Ue. Si è scesi al 2% con l’ottavo intervento di riduzione consecutivamente deciso dalla Banca Centrale. Questi tagli restano le uniche vere iniziative attuate dalla Bce negli ultimi mesi. Se da un punto di vista accademico l’intervento rientra tra quelli da attivare di fronte a perturbazioni importanti dei sistemi economici, la decisione evidenzia l’impotenza da parte di chi governa la politica economica in Europa.

Arrivati al sesto mese di grande perturbazione sui mercati per le meteoropatiche iniziative del presidente Trump, aggiunte al perdurare dei due principali conflitti in atto e al chiaro peggioramento delle relazioni internazionali, il taglio, pur dovuto, consolida lo stallo sul fronte politico ed economico Ue. Il taglio dei tassi può stimolare un’economia debole come quella europea, incentivando imprese e famiglie a consumi ed investimenti, anche perché si affiancano ad un’inflazione sotto controllo (siamo intorno al 1,9% con un obiettivo del 2% per fine anno) e a tassi di disoccupazione nei Paesi Ue (sotto il 6) che sembrano indicare una tenuta del lavoro.

Tutto da manuale come detto. I rischi di questa situazione anomala sono certo ricollocabili tra quelli normalmente ipotizzabili quando si azionano leve di tipo espansivo con la possibilità di un rilancio inflattivo, un surriscaldamento dell’economia con un trend non facilmente recuperabile per quanto riguarda gli aumenti dei prezzi.

Il contesto nel quale queste azioni sono attuate però non è «da manuale» sia per il sovrapporsi di crisi di natura diversa (militare, politica, economica), sia perché ci si trova di fronte a decisioni che sembrano davvero soggette a troppe estemporaneità difficilmente catalogabili tra i comportamenti razionali. Ecco perché i rischi si discostano dai manuali di macroeconomia. Per esempio, va sottolineato che il trend sui tassi dei mutui per le famiglie non ha mostrato grandi riduzioni a seguito dei precedenti tagli perché l’incertezza globale e altri fenomeni influenzano il costo dei mutui finendo per minimizzare l’effetto espansivo che questi interventi avrebbero voluto generare. Va anche detto che, anche solo considerando il rapporto tra politiche espansive e dazi, non è semplice agire perché la possibilità di ammortizzare gli effetti stimolando la domanda interna richiede tempi medio lunghi.

Le principali leve aggiuntive (fiscale e incremento dell’intervento pubblico) sono difficili da realizzare sia per esigenze politiche (il fisco ormai si è tramutato in un’arma ideologica brandita a prescindere dal sui reali limiti o potenzialità), sia per l’estrema differenza tra gli indebitamenti tra gli Stati membri che rende difficile avviare un’azione congiunta. L’incertezza alimenta incertezza portando a cautele (per le imprese) e risparmio (per le famiglie ovviamente se ne hanno la possibilità). Gli investimenti privati possono non crescere nonostante i tassi di interesse bassi riducendo anche azioni di espansione interna. La grande paura oggi non viene quasi mai resa evidente dai commenti ma è quella di vedere contemporaneamente crescita bassa e inflazione (importata) in aumento (stagflazione).

Sarebbe auspicabile che la Ue fosse in grado di realizzare politiche espansive e strategie industriali e commerciali comuni che si orientassero a rafforzare le filiere interne, definendo politiche coordinate a livello di istituti di credito, generando accordi di filiera capaci di superare le posizioni dettate da egoismi nazionali, determinando modelli collaborativi più efficienti. Queste ed altre iniziative andrebbero sostenute da forti e condivise scelte di natura strategica e dalla realizzazione di modelli cooperativi affidabili tra gli Stati membri (e le loro industrie). La necessità di una politica comune non può e non deve essere accantonata anche partendo da considerazioni del tutto interne al nostro Paese.

Se è pur vero (come si sussurra dalle parti del nostro Governo) che la riduzione dei tassi aiuta a ridurre il costo del nostro debito generando benefici per le finanze statali (e quindi aprendo la strada a politiche di tagli sul fronte fiscale) è anche vero che la nostra economia non è nelle condizioni di sottostimare l’effetto che i tassi Usa e le guerre commerciali in atto stanno già generando per molti dei settori trainanti in nostro sistema industriale.

Allo stesso tempo la «positività» collegata al costo del debito pubblico deve essere associata a dati reali, ossia al fatto che, a regime, il taglio, secondo una valutazione, ottimistica, dell’osservatorio dei conti pubblici italiani, può generare una riduzione dei tassi di 15 miliardi di euro su una stima totale comunque superiore ai 90. Stima, legata all’assunzione che il debito pubblico non cresca (quindi non si usi la leva espansiva delle spese pubbliche) e non vi siano forti tensioni nei mercati.

Entrambe ipotesi lontane dalla realtà. Ad esempio, secondo i dati disponibili, il debito pubblico che a gennaio si attestava a circa 2.980 miliardi di euro, è salito a marzo a 3.034 miliardi (un aumento di 54 miliardi) e con un’ipotesi di aumento a fine anno di altri 15-20 miliardi (anche questa ipotesi un po’ ottimistica visto il recente trend). Ipotizzare un approccio autarchico appare, evidentemente, pericoloso sia nel breve sia nel medio-lungo periodo mentre sarebbe da definire come imprescindibile uno sforzo da parte del nostro sistema politico (tutto) orientato a concretizzare azioni, anche immediate, capaci di aggregare Paesi e industrie mettendo finalmente in campo lo spirito che ha dato l’avvio al progetto comunitario.

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