Merton: «La prossima crisi sarà causata da qualcosa che sottovalutiamo»

L’Università degli Studi di Brescia, in collaborazione con la Fondazione I.s.e.o. ha assegnato la «Franco Modigliani – Robert Solow – Iseo Temporary Chair in Economic Sciences» al Prof. Robert Merton, premio Nobel per l’Economia 1997, docente al Mit di Boston e professore Emerito all’Università di Harvard, tra i massimi esperti di finanza e mercati internazionali.
In questi giorni, il prof. Merton è ospite, come visiting professor, del Dipartimento di Economia e Management della facoltà cittadina, dove sta tenendo un corso dedicato alla «Longevity Finance», approfondendo il tema della pianificazione e copertura della spesa pensionistica
Qual è la sua opinione sul protezionismo e sulle politiche tariffarie adottate dall’attuale amministrazione statunitense?
«In generale, credo nelle soluzioni economiche basate sul libero scambio come le più efficienti, ogni volta che ciò sia possibile. Dal punto di vista economico, alcune analisi suggeriscono che questi dazi potrebbero ridurre la crescita del Pil statunitense fino all’1,0% nel 2025, con perdite di reddito intorno ai 690 dollari l’anno per una famiglia mediana. Tuttavia, in assenza di accordi commerciali definitivi e di condizioni chiare, la prevedibilità di queste stime è nel migliore dei casi approssimativa. A livello globale, inoltre, abbiamo già assistito a misure di ritorsione. Stiamo poi vivendo una fase di volatilità dei mercati: i mercati finanziari hanno subito forti fluttuazioni a causa delle incertezze legate a queste politiche commerciali. Sebbene si siano registrati alcuni guadagni nel breve termine, la fiducia degli investitori nel lungo periodo resta cauta, e i rapidi cambiamenti della politica tariffaria statunitense hanno probabilmente minato la fiducia nel rispetto degli accordi presi dagli Usa, lasciando il timore che essi possano essere modificati radicalmente per costringere a nuove trattative in futuro. Se così fosse, allora è probabile che i produttori cerchino di diversificare le catene di approvvigionamento e i mercati di sbocco, puntando su soluzioni al di fuori degli Stati Uniti anche per ragioni di sicurezza economica nazionale».
Lei crede che la globalizzazione non finirà, ma subirà una trasformazione, oppure pensa che potrebbe avviarsi un processo di deglobalizzazione che favorisca i mercati locali?
«La globalizzazione non finirà, ma si evolverà in una forma più strategica, influenzata dalla politica e guidata dal digitale. In particolare, mi aspetto che il sistema finanziario globale, in termini di capitale, risparmio e investimenti, rimanga tale, anche se la tendenza al nazionalismo dovesse proseguire. Questa evoluzione consente il rafforzamento dei mercati locali senza abbandonare del tutto l’interdipendenza internazionale. Una deglobalizzazione completa, cioè il taglio netto delle economie l’una dall’altra, è economicamente impraticabile e storicamente molto rara. La digitalizzazione renderà i costi e i benefici della diversificazione globale ancora più efficienti, sia nella gestione del rischio sia nella riduzione del costo del capitale».
Oggi l’intelligenza artificiale sta trasformando radicalmente i mercati finanziari. Che ruolo avrà l’AI ?
«Molte innovazioni della scienza finanziaria che in passato non potevano essere implementate in modo economicamente sostenibile, ora diventano realizzabili. La tecnologia sta avvicinando la pratica alla teoria finanziaria. Ad esempio, la mia ricerca più influente, cinquant’anni fa, si basava su modelli che assumevano che i decisori potessero operare sui mercati 24 ore su 24, in modo continuo. Oggi la finanza opera a livello globale 24/7 e utilizza strategie di trading ad alta frequenza con latenze misurate in millisecondi e microsecondi. Nel campo dell’AI, possiamo aspettarci importanti progressi nella gestione del rischio e nella rilevazione delle frodi. L’AI migliorerà il monitoraggio in tempo reale e l’analisi predittiva, permettendo alle istituzioni di identificare frodi, manipolazioni di mercato o rischi di credito in modo più rapido e preciso. Questi strumenti tecnologici potranno essere impiegati per ridurre i costi e favorire l’applicazione di soluzioni finanziarie più sofisticate, offrendo consulenza d’investimento, gestione di portafogli e pianificazione finanziaria iper-personalizzate, calibrate sulle specifiche esigenze e preferenze dell’individuo».
A suo parere, quali sono oggi i rischi finanziari sistemici più sottovalutati?
«La mia definizione di crisi non coincide semplicemente con una perdita diffusa e consistente nel valore degli asset, anche se una crisi è generalmente accompagnata da forti perdite. Una crisi è quando si verifica una perdita importante e non sappiamo perché sia accaduta. Le regole su cui si basano l’economia, i mercati e il funzionamento delle cose non funzionano più, e non sappiamo né perché, né quali siano le nuove regole. Ci svegliamo una mattina, tutti i nostri schermi sono spenti, e non sappiamo perché: quello che stiamo vivendo è al di fuori del nostro “modello” e, quindi, non possiamo prepararci nel modo consueto. Una buona regola empirica è: “La prossima crisi arriverà sempre da qualcosa che non stiamo osservando con attenzione”».
Quali potrebbero essere alcuni rischi che stiamo sottovalutando e da cui potrebbero scaturire nuove crisi?
«Ad esempio, il rischio finanziario legato al cambiamento climatico (rischio fisico + rischio di transizione): i mercati probabilmente sottovalutano i rischi climatici di lungo periodo, a causa dell’assenza di mercati ben funzionanti per indicatori come la temperatura degli oceani e dell’incertezza nella modellizzazione del fenomeno. Danni a infrastrutture, agricoltura e abitazioni impattano il valore degli asset. Un ulteriore rischio sottovalutato potrebbe rivelarsi l’uso diffuso dell’AI nel trading perché potrebbe portare a una convergenza dei modelli, cioè tutti reagiscono allo stesso modo agli stessi segnali. Questo è un comportamento gregario indotto dalla tecnologia, che può generare flash crash.
Quale consiglio darebbe oggi ai suoi studenti e ai giovani economisti?
«Il mio consiglio oggi è sempre lo stesso: i modelli sono strumenti potenti per comprendere come funzionano le cose, prevedere le conseguenze delle azioni e quindi affrontare le sfide. Ma non bisogna limitarsi a imparare i modelli, bisogna capirne i limiti. Non bisogna confondere modelli che sono precisi, ma che implicano sempre astrazioni e quindi rappresentazioni incomplete di una realtà complessa. L’incompletezza ci garantisce che qualsiasi modello, per quanto sofisticato, possa fallire. Non esiste “il miglior modello” in assoluto per qualcosa. Il miglior modello è un trittico: il modello, chi lo utilizza e lo scopo per cui lo si utilizza. In altre parole: padroneggiate la matematica e la teoria, ma chiedetevi sempre: su quali ipotesi si basa questo modello? e che cosa non considera questo modello? In sintesi: siate competenti in matematica, ma fluenti nella realtà. Il passo più importante nella costruzione di un modello è determinare le astrazioni che si scelgono: che cosa viene incluso nel modello? Che cosa viene lasciato fuori? Io chiamo questa parte del lavoro “l’arte della scienza”, e si applica a ogni disciplina scientifica. Inoltre, siate economisti capaci di ricordare che dietro i dati ci sono delle persone. È lì che il vostro impatto potrà davvero farsi sentire. Lasciate che sia lo scopo, non il prestigio, a guidare il vostro cammino. Seguite la vostra passione e imparate a comunicare in modo chiaro anche le idee più complesse».
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