La nuova strategia di Putin: negoziare per non negoziare

Giovanni Cadioli
Per comprendere a quali condizioni la Russia accetterebbe di interrompere le operazioni militari in Ucraina è necessario considerare le radici della guerra e gli obiettivi che il Cremlino si prefiggeva con l’invasione del 2022
Vladimir Putin - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Vladimir Putin - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Per comprendere a quali condizioni la Russia accetterebbe di interrompere le operazioni militari in Ucraina è necessario considerare le radici della guerra e gli obiettivi che il Cremlino si prefiggeva con l’invasione del 2022 – obiettivi che Putin continua a ribadire.

Dal 2004 l’Ucraina è terreno di competizione tra orientamento filo-occidentale e influenza russa. Il presidente Janukovic, eletto nel 2010 su una piattaforma favorevole all’integrazione europea e contraria alla Nato, fu rimosso nel 2013 dopo aver rinnegato tale mandato. La Russia reagì con l’annessione della Crimea – dove era già presente militarmente – e con il sostegno armato alla rivolta nel Donbass. Il tentativo di Kyiv di riconquistare militarmente la regione fallì a seguito dell’intervento diretto russo.

Un'esercitazione militare nella regione di Zaporizhzhia - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
Un'esercitazione militare nella regione di Zaporizhzhia - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it

Ne seguirono gli accordi di Minsk, che imponevano all’Ucraina una profonda decentralizzazione e uno status speciale per il Donbass. In realtà, tali intese avrebbero trasformato le regioni occupate in un permanente strumento di veto russo sulla politica ucraina. Il loro fallimento portò all’ultimatum russo del 2021, con cui Mosca pretendeva lo stop all’allargamento della Nato e la smilitarizzazione dell’Europa orientale. Da qui nasce la diffusa ma errata convinzione che l’invasione del 2022 mirasse a impedire un’imminente adesione ucraina all’Alleanza.

La Nato non ha mai accolto Paesi con dispute territoriali aperte con la Russia. La Georgia aspirava all’adesione fin dal 2003, ma dopo la breve guerra del 2008 e la perdita di controllo su due regioni, il suo percorso atlantico è stato di fatto congelato. Lo stesso vale per l’Ucraina: l’annessione russa della Crimea aveva già reso impossibile l’ingresso di Kyiv nella Nato. Anche la presunta «liberazione» del Donbass non è stata il casus belli dell’invasione russa: non vi è mai stato alcun genocidio anti-russo né una persecuzione sistematica dei russofoni in Ucraina (Zelensky stesso è russofono!).

L’invasione rispondeva invece a due obiettivi, apertamente dichiarati da Putin e dalla propaganda russa. Sul piano regionale, «denazificare» e «demilitarizzare» l’Ucraina significava abbatterne il governo legittimo, smantellarne lo Stato e negarne l’identità nazionale, trasformandola in un’entità subordinata sul modello bielorusso. Sul piano internazionale, ciò avrebbe contribuito a scardinare l’ordine liberale a guida statunitense, sostituendolo con un presunto «multipolarismo» fondato sulla politica di potenza e sul disprezzo del diritto internazionale.

Putin continua a perseguire questi obiettivi e per questo la Russia continua, utilizzando lo stesso copione, a sabotare qualsiasi accordo di pace che non preveda condizioni favorevoli perché essa possa continuare a perseguirli.

Poiché Putin continua a perseguire questi obiettivi, la Russia sabota sistematicamente ogni negoziato che non li favorisca. Anche l’ultimo tentativo segue il copione consueto: dopo un accordo di massima e già fragile di suo tra Usa e Ucraina, la Russia rifiuta un cessate il fuoco, chiede una «accordo di pace globale» ponendo condizioni impossibili, denuncia il rifiuto di Kyiv e dell’Ue come un sabotaggio del «processo di pace» e intensifica la campagna di disinformazione (fingendo per esempio come ieri che l’Ucraina abbia lanciato quasi 100 droni contro una delle residenze di Putin, attacco di cui non vi è traccia).

La residenza presidenziale russa di Vladimir Putin nella regione di Novgorod in una foto pubblicata su Navalny.com
La residenza presidenziale russa di Vladimir Putin nella regione di Novgorod in una foto pubblicata su Navalny.com

Ogni volta Trump tende a credere più a Putin che a Zelensky, per affinità politica e per una visione autoritaria delle relazioni internazionali. E quindi i negoziati falliscono, Trump si infuria con Ucraine e Ue e la Russia, che sul campo avanza poco e a fatica, può continuare a scommettere sulla tenuta della sua economia, sull’esaurimento dei fondi europei per Kyiv e su un definitivo disimpegno americano.

Il successo arride a Putin: Trump è l’alleato migliore che potesse desiderare per accelerare la crisi dell’Occidente, mentre l’Ue, assorbita dalla frenesia del riarmo, trascura di offrire ai propri cittadini anche ragioni politiche e sociali per difendere la democrazia – la propria e quella altrui. Bruxelles non potrà armare Kyiv all’infinito, e l’aumento delle diserzioni ucraine segnala qualcosa di ancora più inquietante: se la Russia riuscirà a mantenere l’attuale livello di attrito al fronte, nemmeno le armi occidentali basteranno a fermarne l’avanzata. E Putin lo sa bene.

Giovanni Cadioli - Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, Università di Padova

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