Le bandiere in piazza San Pietro, icone dei nazionalismi

Al momento dell’Angelus la piazza ha visto negli ultimi 50 anni una crescita esponenziale del simbolo
La bandiera italiana
La bandiera italiana
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Chi volesse misurare il grado di diffusione del fenomeno nazionalista, non dovrebbe soffermarsi sulle guerre che si moltiplicano, né sulle competizioni economiche e sportive, dove il fenomeno alimenta un’ovvia, quanto inevitabile, partecipazione identitaria.

Per capire sino a che punto il nazionalismo è diventato una iattura pervasiva in tutti gli ambiti della vita quotidiana, bisogna soffermarsi a considerare quegli eventi il cui significato non dovrebbe avere nulla a che fare con l’appartenenza nazionale, come ad esempio quello che accade nella comunità della Chiesa cattolica con le elezioni dei Papi e con i comportamenti dei fedeli a piazza S. Pietro.

Chi, negli ultimi 50 anni, ha osservato il contegno delle folle accalcate in quella piazza, a Roma, al momento dell’Angelus, avrà notato la crescita esponenziale di simboli e bandiere nazionali, esibite e sventolate come ad una competizione sportiva. Non parliamo poi dei giorni in cui i cattolici sono in attesa della fatidica fumata bianca: in quel caso, se interpellati, i fedeli di tutto il mondo dichiarano di pregare Iddio affinché venga scelto come Papa il cardinale del proprio Paese.

Gli aggettivi italiano, americano, tedesco, ecc., sovrastano di gran lunga la sostanza dell’evento, vale a dire le caratteristiche umane e il profilo pastorale del pontefice. Cosa significa tutto questo? Che neppure nel cuore dell’istituzione più universalista che esista – vale a dire la Chiesa cattolica, da sempre ostile all’idea di un primato della nazione che possa mettere in discussione il proprio messaggio evangelico urbi et (soprattutto) orbi – ci si può sottrarre a quel deterioramento culturale e cognitivo a cui abbiamo dato il nome di nazionalismo.

Non so se già esiste, ma tra i tanti «osservatori» attivati per segnalare le tendenze in atto nei fenomeni politici, sociali e economici, potrebbe essere utile averne uno in grado di monitorare gli eccessi del nazionalismo che, come è noto, nel momento in cui esonda da sentimento genericamente patriottico a dottrina della supremazia, diventa decisamente pericoloso per le istituzioni democratico-liberali.

Non va infatti dimenticato che, dalla fine dell’800, sulla base di questa ideologia, si è spesso cercato di mettere la sordina o ridimensionare l’opposizione e il conflitto sociale, in nome di un presunto interesse nazionale, che poi, molto spesso risulta sempre essere interesse di alcuni specifici e ben identificabili settori e mai della cittadinanza nel suo insieme.

In questo senso il nazionalismo ha agito come una sorta di oppiaceo sociale indispensabile per sedare e integrare le grandi masse all’interno dei processi di conquista, dominio, sterminio, sfruttamento, sia in politica estera che in politica interna, di tutti i Paesi entrati nella contemporaneità grazie all’esplosiva miscela di rivoluzione industriale e democrazia politica.

In questo senso il nazionalismo, nelle sue varie accezioni, ottunde, distrae, modifica valori, percezioni, realtà dei fatti, ed è per questo che ancora oggi, come un secolo e mezzo fa – quando il fenomeno ha cominciato ad assumere l’attuale forma antiliberale e antidemocratica – l’ideologia nazionalista continua ad essere indispensabile per fornire argomentazioni a giustificazione di sacrifici e sperequazioni imposti sempre nel nome dell’interesse nazionale.

È il paradosso di questo nostro tempo: da un lato, un mondo sempre più globale, attraversato da movimenti e fenomeni transnazionali, un «one world» dominato dalla logica di un capitalismo che non rispetta confini ed entità statali.

Dall’altro, la presenza di contesti sempre più identitari, di pulsioni nazionaliste con cui si cerca di restituire confini e limiti necessari a placare l’ansia e l’angoscia di una globalizzazione rimasta a metà del guado.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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