Perché il «trumpismo» non può essere esportato al di fuori degli Usa

La vittoria di Donald è destinata a gonfiare le vele della destra nazionalista in molti Paesi occidentali, ma questa sintonia è destinata a rivelarsi per molti versi illusoria
Il neo eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump - Foto Epa/Allison Robbert © www.giornaledibrescia.it
Il neo eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump - Foto Epa/Allison Robbert © www.giornaledibrescia.it
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La squadra che affiancherà Donald Trump nel suo secondo quadriennio alla Casa Bianca ha ormai preso forma, ma è al momento molto difficile prevedere cosa produrrà la combinazione di personalità tanto diverse. Una conseguenza del successo del tycoon è però abbastanza scontata. La vittoria di Trump è infatti destinata a gonfiare le vele della destra nazionalista in molti Paesi occidentali. E non solo perché i partiti di destra possono sperare – più o meno credibilmente – di trovare a Washington una sponda politica. Ma soprattutto perché il successo del milionario newyorkese, legittimando temi e stili in precedenza banditi, ha dissodato un terreno che molti altri possono ora coltivare. Non è dunque sorprendente che il «trumpismo» trovi tanti sostenitori e seguaci anche nel nostro esecutivo. Questa sintonia è tuttavia destinata a rivelarsi per molti versi illusoria.

Perché il «trumpismo» non può essere esportato al di fuori degli Stati Uniti e, soprattutto, non può diventare davvero l’«ideologia guida» delle destre sovraniste europee. Per quanto sia difficile prevedere come si muoverà la nuova presidenza, le stelle polari del Make America Great Again sono state fino a questo momento soprattutto tre: nazionalismo, protezionismo e isolazionismo. Si tratta di tendenze che hanno radici piuttosto profonde nella cultura politica americana, alle quali però Trump ha impresso una curvatura specifica.

Il nazionalismo (che ha assunto talvolta anche sfumature nativiste) è stato declinato come difesa dei confini contro le «invasioni» provenienti dal Sud del Mondo. Il protezionismo è stato invece la parola d’ordine della prima presidenza Trump, lo strumento con cui far tornare «grande» l’America mediante l’imposizione di dazi sulle merci provenienti dall’estero, nella convinzione che l’industria a stelle strisce vada protetta dalla concorrenza (sleale) di altri Paesi. L’isolazionismo (molto relativo) ha invece preso la forma di un tendenziale «disimpegno» dal ruolo di gendarme del mondo: quel ruolo che ha spinto gli Stati Uniti dopo il 1989 (e soprattutto dopo l’11 settembre 2001) a intervenire militarmente per «esportare» la democrazia o per risolvere situazioni di crisi. In realtà l’isolazionismo non può che essere oggi per gli Usa più di una vaga aspirazione e la prospettiva (o la minaccia) del «ritiro» (parziale) ha in effetti riguardato per ora soprattutto l’Europa, accusata di non sostenere economicamente la Nato. E non sembra comportare né un sostegno meno convinto a Israele, né un miglioramento dei rapporti con Pechino.

Non è affatto certo che la seconda amministrazione Trump continui a muoversi lungo queste traiettorie. Ed è piuttosto improbabile che le promesse del Maga possano essere davvero mantenute con questi strumenti. Ciò che risulta ancora più improbabile è comunque che le soluzioni proposte dal «trumpismo» possano essere adottate dagli epigoni europei.

Senza dubbio il nazionalismo nativista è già una risorsa ampiamente sfruttata dalle destre e si può prevedere che – muri a parte – il successo di Trump dia nuova linfa alle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina. Ma né il protezionismo né l’isolazionismo di Washington possono in alcun modo rappresentare una carta spendibile da parte dei «trumpisti» del Vecchio continente. Neppure gli Usa sono in grado di svincolarsi dai mille fili dell’interdipendenza globale. Ma, al di là degli effetti reali che potrebbero produrre le guerre commerciali, gli Stati Uniti si trovano comunque in una posizione di forza, in virtù della loro relativa autosufficienza energetica, della supremazia tecnologica e del ruolo che il dollaro continua a giocare come moneta globale. Nessuno degli Stati europei (neppure la Germania) può contare su risorse del genere e qualsiasi nostalgia «autarchica» risulterebbe del tutto insostenibile sotto il profilo economico.

Per motivi banalmente geopolitici l’isolazionismo non è un’opzione che gli Stati europei abbiano mai potuto sfruttare. Ma il disimpegno di Washington produrrebbe invece conseguenze opposte per i Paesi del Vecchio continente. La riduzione del sostegno americano alla Nato richiederebbe infatti ai partner europei uno sforzo economico e militare notevole per garantire la sicurezza, in una fase storica in cui gli equilibri globali sono in rapido movimento. E un simile rafforzamento potrebbe avere qualche speranza di contare solo nella prospettiva di una politica di sicurezza europea realmente comune. Potrebbe cioè avere un impatto solo se a farsene promotrice fosse l’Unione europea, il grande bersaglio verso cui si dirigono da sempre le critiche dei sovranisti del Vecchio continente.

Il «trumpismo» non è solo un fenomeno americano per lo stile, i temi e le modalità con cui si è imposto. Piaccia o non piaccia, è anche una strategia, dagli esiti incerti, che una potenza egemone in declino «relativo» (reale o percepito, poco importa) può mettere in atto per sfruttare la propria posizione di forza, a livello economico, militare e politico. Ma rimane, appunto, una carta cui solo una potenza egemone, come sono ancora gli Stati Uniti, può credibilmente ricorrere. Nella sua forma integrale, si tratta dunque di un progetto politico destinato a restare confinato in un solo Paese. Nel Vecchio continente – e soprattutto in Italia – si potrà così avere soltanto un «trumpismo dimezzato». Un impasto di retorica anti-politica, nazionalismo (spesso molto «banale») e linguaggio aggressivo, indubbiamente capace di mobilitare contro nemici reali o immaginari, ma privo delle basi su cui le promesse (probabilmente illusorie) di Trump possono contare.

Damiano Palano – Direttore Dipartimento di Scienze politiche dell'Università Cattolica

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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