Perché difendere la Corte penale internazionale

La Corte Penale Internazionale è al centro di una centro di una campagna di delegittimazione senza precedenti, e con lei l’intero sistema di norme e meccanismi pensati per garantire la convivenza pacifica tra i popoli e perseguire chi la viola con i peggiori crimini. Lo dimostrano le inedite sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, ma anche le recenti prese di posizione di membri di spicco del nostro governo che, già impegnati da giorni a scaricare sui giudici dell’Aia la responsabilità del disastroso caso Almasri, non hanno esitato a cavalcare l’onda. Così, alla mancata firma della dichiarazione congiunta di 79 Stati contro le sanzioni si sono aggiunte le parole dei vicepremier Salvini e Tajani, secondo cui la Corte andrebbe non solo «messa in discussione», ma addirittura «indagata».
È il rinnegamento della postura di fermo sostegno alla legalità internazionale che dal dopoguerra contraddistingue l’Italia, che non a caso nel 1998 ospitò a Roma proprio la conferenza d’istituzione della Corte. Eppure constatiamo da un lato l’indifferenza, quando non l’adesione, che questi attacchi incontrano in gran parte dell’opzione pubblica. Dall’altro – e i due aspetti sono legati – la difficoltà, da parte di chi invece crede nel diritto internazionale, a contrapporre una narrazione convincente che vada oltre il richiamo a un dovere quasi dogmatico di rispettare i trattati e gli organi.
L’adesione al diritto internazionale non è un dogma, è una scelta. E se quella scelta viene messa in discussione, spetta a chi vuole difenderla riaffermarne, e forse ancor prima riscoprine le motivazioni. Ricordare, per esempio, che il periodo di (relativa, ma comunque eccezionale rispetto al passato) pace che gran parte del mondo sta vivendo è anche figlio di quelle norme e quegli organi internazionali, che spesso hanno prevenuto o posto fine a violenze e conflitti. È il caso di molte decisioni della Corte internazionale di giustizia, che come la Cpi è sotto attacco per le indagini sul presunto genocidio a Gaza, come quella che nel 1994 ha posto fine alla disputa territoriale tra Libia e Chad. O le indagini della Corte penale in Congo e Uganda, che non solo hanno permesso di mettere in cella gli autori di violenze atroci, ma hanno anche avuto un impatto deterrente sulle parti belligeranti.

Eppure neanche questi argomenti sono sufficienti. Perché in dubbio, oggi, non è tanto l’efficacia della Corte penale, quanto l’idea stessa che un organo «non eletto», come spesso si sottolinea, abbia a ridire sull’operato di governi, invece, «democraticamente eletti» e per questo ritenuti interpreti esclusivi della «volontà popolare». Un’obiezione evidentemente convincente agli occhi di molti, che non va ridicolizzata o elusa, ma presa sul serio e affrontata nel merito.
Come? Affermando che il diritto internazionale e gli organi chiamati a farlo rispettare non sono imposizioni piombate dall’alto, ma anch’essi espressione e interpreti di una volontà democratica: quella delle delegazioni che, su mandato dei governi, hanno negoziato e approvato le convenzioni e quella dei parlamenti che, in nome dei popoli che rappresentano, le hanno ratificate. Certo, è una volontà diversa da quella che si esprime nelle azioni dei governi eletti: meno immediata, meno visibile, meno «muscolare», ma anche più stabile e più rappresentativa, proprio perché cristallizzata in compromessi su princìpi fondamentali in cui non solo la maggioranza del momento, ma tutti i popoli in qualsiasi tempo - almeno questa è l’ambizione - possono riconoscersi: la rinuncia alla violenza, il rispetto dell’integrità territoriale, l'inviolabilità della dignità della persona. Rinnegare le convenzioni e i tribunali internazionali allora non significa solo aprire le porte alla legge del più forte, ma anche tradire la volontà democratica che li ha stabiliti, in nome e per il bene di tutti.
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