La Corte penale internazionale e l’arresto di Netanyahu

Un’analisi sulle implicazioni, i motivi e le possibili conseguenze del mandato d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu, Yoav Gallant e Mohammed Deif
L'annuncio del mandato d'arresto per Netanyahu, Gallant e Deif - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
L'annuncio del mandato d'arresto per Netanyahu, Gallant e Deif - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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La lista dei nomi per i quali la Corte penale internazionale, pur nella sua breve vita, dal 2002 in poi, ha spiccato mandati di arresto, ci fa ripercorrere le pagine più buie della nostra storia recente, il cui lessico annovera ancora azioni e quindi reati come quelli contro l’umanità perpetrati durante i conflitti, guerre di aggressione e di pulizia etnica. Crimini che sembravano relegati al XX secolo, il «Secolo breve» di Hobsbawm, ma anche il «secolo dei genocidi», come lo ebbe a definire Bernard Bruneteau.

Il primo fu Slobodan Milosevic per lo sterminio sistematico messo in atto contro i musulmani di Bosnia, Croazia e Kosovo. Toccò poi al suo sodale, Ratko Mladic, il boia di Srebrenica, e poi fu la volta del premier ruandese Jean Kambanda per la pulizia etnica contro i Tutsi, dei quali quest’anno ricorre il tragico trentesimo anniversario. Molti altri poi furono i personaggi illustri messi sotto accusa da l’Aja: dal venezuelano Maduro, al sudanese al-Bashir, passando per Gheddafi fino al provvedimento più recente in ordine di tempo emesso contro Vladimir Putin per l’aggressione all’Ucraina.

Da ieri la lista annovera anche il premier Benjamin Netanyahu, il suo (ex) ministro della Difesa Yoav Gallant e Mohammed Deif, il comandante del braccio armato di Hamas a Gaza che Israele considera deceduto dall’agosto scorso.

Veementi le prime reazioni israeliane che tacciano la decisione della Corte di essere «antisemita», basata su accuse «false e assurde», elaborate da un’istituzione che viene considerata dal Governo di Tel Aviv «di parte e discriminatoria» e sottolineando che quella dell’8 ottobre è da considerarsi una «guerra giusta».

Tre i punti che possono essere indagati nell’immediato: il primo di carattere teorico, un secondo più pratico e il terzo di ordine internazionale. Da un punto di vista teorico deve essere osservato che un mandato d’arresto non è una condanna, ma è una legittima azione attraverso la quale la Cpi, avendo ritenuto fondate le accuse, si muove per indagare e per impedire che vi sia una reiterazione del crimine e per avere piena garanzia, attraverso la custodia, che i soggetti compaiano effettivamente dinanzi alla Corte stessa. In maniera più pragmatica il mandato d’arresto è teso a restringere la libertà di movimento dell’imputato. Tuttavia, in assenza di un organo esecutivo che renda efficaci le sue decisioni, la Corte deve fare leva sul senso di responsabilità giuridica, morale e sul senso di cooperazione dei 124 Paesi firmatari del Trattato di Roma con il quale la Cpi è stata istituita. Di grande peso sono gli assenti, tra i quali Stati Uniti, Russia, Cina e Israele.

V’è però da osservare che se un particolare crimine sia parte integrante del diritto internazionale consuetudinario la giurisdizione della Corte è estesa anche agli Stati non firmatari, come nel caso di «genocidio». Da questa prospettiva si comprende l’ampio e aspro dibattito che si è sempre acceso attorno all’attribuzione o meno ad un Governo di questo crimine esecrabile: da quello armeno sino a quello ipotizzato per i palestinesi, quest’ultimo derivato dalla richiesta della Corte internazionale di Giustizia che nel maggio scorso chiedeva a Israele di «prevenire possibili atti genocidari» a Gaza.

Un terzo punto riguarda invece le conseguenze di politica internazionale. Il mandato di cattura contro due degli attuali più importanti esponenti israeliani rischia di essere il primo concreto terreno di scontro tra la prossima Presidenza Trump e l’Unione europea, per diversità di approcci sulla questione.

Se già ieri la notizia del mandato di arresto ha provocato l’immediata difesa da parte dell’attuale amministrazione che ha respinto la con forza la decisione della Corte, la Ue, per bocca di Borrell ha dichiarato che questa dovrebbe essere rispettata e applicata. Vista nell’ottica di Washington, la presa di posizione Usa è obbligata. Se, come ha affermato Mike Waltz, prossimo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, il mandato mette sullo stesso piano Hamas e lo Stato di Israele, quest’ultimo sottoposto a condanna per la palese eccessiva violentissima azione di ritorsione contro il gruppo terroristico, coinvolgendo però in maniera massiva e indiscriminata la popolazione di Gaza, per naturale sillogismo potremmo dedurre che gli Stati Uniti, nella figura del loro presidente, potrebbero un giorno essere chiamati a rispondere dello stesso reato per le operazioni militari seguite all’11 settembre in Afghanistan e in Iraq: dalle false prove che portarono alla campagna irachena del 2003 sino al tragico computo che quell’invasione comportò in termini di perdite civili, stimate in oltre 200.000 morti.

Non è un caso che durante il suo primo mandato Trump impose una serie di sanzioni ai funzionari della Cpi. L’allora Segretario di Stato Mike Pompeo spiegò che le sanzioni erano state imposte perché la Corte aveva iniziato a indagare sulle azioni degli Stati Uniti in Afghanistan e sulle operazioni militari israeliane nei territori occupati. Dietro il mandato a Netanyahu si gioca dunque una partita molto più ampia e il passo, obbligato, che dall’idea di guerra giusta dovrebbe condurre alla giustizia sui crimini di guerra sembra ancora una volta sottomesso agli interessi dei più forti.

Michele Brunelli, docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche, Università di Bergamo

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