Nell’orizzonte libico c’è una nuova crisi

Le ragioni di tensione tra Bengasi e Tripoli sono di natura economica
Haftar l'uomo forte della Cirenaica - © www.giornaledibrescia.it
Haftar l'uomo forte della Cirenaica - © www.giornaledibrescia.it
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Dopo un periodo relativamente stabile seguito agli accordi di Ginevra del 2020, la Libia (ammesso che di Libia, divisa di fatto tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, si possa ancora parlare di stato) è ripiombata in una situazione che potrebbe preludere a crisi drammatiche. I nodi della contesa tra Tripoli e Bengasi ruotano attorno a gangli economici e strategici, tra loro intrecciati.

Il primo è il controllo della Banca Centrale, che gestisce i proventi del petrolio, ovvero il 90% delle entrate fiscali del Paese. In agosto, forze del Governo di unità nazionale (Gnu) del premier Dbeibah hanno circondato la sede della Banca, estromettendone il presidente Al Kabir. La mossa non è piaciuta a Bengasi: il gen. Khalifa Haftar, rais dell’Est, ha ordinato di cessare produzione ed esportazioni di petrolio nelle aree controllate (metà delle riserve libiche, oltre ai terminal di es-Sider, Brega, Zueitina e Ras Lanuf). La produzione libica è così crollata da 1,8 milioni di barili di petrolio al giorno a circa 400mila, inguaiando il governo di Tripoli, che in crisi di liquidità non effettua pagamenti e transazioni vitali per milioni di cittadini. Haftar, scavalcando l’accordo informale del 2022 sulla spartizione delle risorse petrolifere, mira dunque a provocare una crisi per rovesciare Dbeibah, accettando anche il rischio di un confronto armato.

In questa chiave va anche la puntata offensiva, in agosto, dell’Esercito nazionale libico guidata da Saddam Haftar, figlio di Khalifa, sulla città di Ghadames, a Sud Ovest, ai confini con Tunisia e Algeria, 500 km da Tripoli. Ufficialmente la mossa mirava ad accrescere la sicurezza dei confini, ma molti l’hanno letta come manovra per aggirare (e se necessario da là attaccare) la capitale. Saddam ha chiuso poi il giacimento di Sharara (da 300mila barili al giorno) che fornisce anche la spagnola Repsol: è parsa una ritorsione di Saddam stesso verso Madrid, che lo avrebbe incriminato come trafficante d’armi; ma più probabilmente lo scopo resta indebolire il governo di Dbeibah.

Intanto Al Kabir, temendo per la vita, si sarebbe rifugiato in Turchia: Bengasi, con cui aveva stabilito rapporti privilegiati, preme per un suo ritorno. La famiglia Haftar è economicamente più forte di Tripoli, avendo accumulato miliardi con contrabbando di carburante, contraffazione di dinari libici e speculazioni sui tassi di cambio del dollaro al mercato nero e grazie ad Al Kabir ha trasferito alla Banca centrale i debiti con banche private (i cui cda sono controllati dai figli di Haftar). Bengasi, dunque, può reggere in attesa che a Tripoli si paralizzi la pubblica amministrazione, con conseguente caduta del primo ministro.

Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno espresso preoccupazione anche con dichiarazioni congiunte, mentre il gen. Michael Langley, a capo di Africom (il Comando Usa in Africa), ha incontrato Haftar a Bengasi, esortandolo al dialogo. Anche Russia e Turchia, sponsor rispettivamente di Bengasi e Tripoli, sembrano voler evitare un conflitto, ma al tempo stesso riarmano gli schieramenti: il 2 agosto un cargo russo ha sbarcato a Tobruk venti camion Mustang, utilizzabili per artiglieria e guerra elettronica. A luglio, a Gioia Tauro, gli italiani han sequestrato droni militari cinesi in un container diretto a Bengasi di probabile fonte russa. Anche la Turchia ha fornito nuovi mezzi a Tripoli, come droni Bayraktar, là geolocalizzati. Ankara però ha interessi edilizi per infrastrutture anche nell’Est della Libia e ora non ha preso apertamente posizione a favore di Dbeibah. Il blocco del petrolio dall’est della Libia gioca comunque a favore del Cremlino, perché influisce al rialzo sui prezzi internazionali.

Roma, che nel 2019 non appoggiò militarmente Tripoli lasciando spazio alla Turchia, che l’ha soppiantata sulla ex nostra «quarta sponda» ha giocato un ruolo attivo a luglio nel Forum trans-mediterraneo sulla migrazione indetto da Dbeibah: Meloni ha ribadito l’importanza di affrontare le cause dei flussi migratori collaborando coi Paesi di origine e transito. Viste le crescenti difficoltà di Tripoli, però, va letta positivamente la scelta italiana di andare poi a trattare anche con Haftar: i nostri interessi in Libia sono ancora tali, infatti, che è necessario giocare politicamente ogni carta.

Anche perché nel Fezzan, corridoio tra il Sahel e le sponde del Mediterraneo infuria la disputa tra le tribù, specie Tuareg e Tebu, che non hanno più un Gheddafi «calmieratore», per il controllo dei traffici di armi, droga e persone: una fetta decisiva del nostro «piano Mattei» passa proprio da lì.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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