Meloni, Draghi e gli equilibri europei

Sotto il profilo della transizione ecologica ed energetica, le ultime elezioni europee hanno lanciato un inequivocabile segnale punendo le forze politiche più decise nel sostenere l’accelerazione delle politiche ambientali e premiando quelle che invece contestano il cosiddetto «ideologismo ambientalista».
Di fronte a questo orientamento delle opinioni pubbliche nazionali, l’equilibrio politico che si è costruito a Bruxelles con la nuova Commissione europea appare abbastanza asimmetrico essendo stato costruito con il consenso di Olaf Scholz e Emmanuel Macron, duramente puniti dai loro elettorati.
La presenza della socialista ambientalista spagnola Teresa Ribera nella Commissione quale responsabile della Transizione ecologica (sia pure in coabitazione con un olandese molto più moderato) è la dimostrazione di questa asimmetricità che non tarderà a manifestare le sue contraddizioni.
A queste contraddizioni cerca di porre un qualche rimedio Mario Draghi quando dice che non si possono avere grandi ambizioni sulla «frontiera» dell’ambiente se poi non le si fa seguire da piani concreti con risorse adeguate. La preoccupazione di Draghi per la sostenibilità sociale della politica di decarbonizzazione è evidente. Su questa linea si è manifestato un certo allineamento tra Giorgia Meloni e il suo predecessore a palazzo Chigi nel colloquio dell’altro giorno. Le cui conclusioni sono state riportate dalla stessa Meloni all’assemblea di Confindustria dove il neopresidente Orsini aveva già suonato la carica contro «le politiche ambientali autolesioniste» che «mettono a rischio l’industria» perché «la decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una débâcle».
Gli applausi degli imprenditori che hanno accolto queste parole del loro presidente e che si sono ripetuti quando Giorgia Meloni le ha riprese per condividerle, dicono qual è lo stato d’animo della nostra classe industriale, probabilmente non diverso da quello dei colleghi tedeschi (pensiamo ai licenziamenti alla Volkswagen), francesi, europei in genere.
La rivolta contro l’«ideologismo ambientalista» è vasta e diffusa tra tutti i ceti, non solo in alto ma soprattutto in basso; Meloni la interpreta politicamente andando a contestare la politica sull’automotive, quella sul green building e, in generale, sul fatto che dall’asserita neutralità tecnologica nella transizione si è finito per sposare la sola elettrificazione. Draghi, che non arriva a questo livello di contestazioni, indica una strada per uscire dall’impasse ma ancora non è chiaro quanto potrà essere seguito.
Quel che c’è da capire in questo momento è però cosa intende fare la Commissione: sia Ursula von der Leyen che ribadisce la validità del Green Deal («La nostra spina dorsale») ma si muove con più cautela nelle sue accelerazioni, sia la sua maggioranza in cui la sinistra e gli ecologisti hanno un ruolo non secondario. Se assisteremo ad un irrigidimento della commissaria Ribera, per fare l’esempio più chiaro, capiremo che l’asimmetria politica di cui scrivevamo più sopra è destinata a provocare un altro spostamento degli elettorati verso posizioni anche più rigide di quelle espresse dalla stessa Giorgia Meloni.
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