Meloni e la politica estera al bivio tra Ue e Usa

Un Paese come l’Italia ha impostato la politica estera dei primi decenni del secondo Dopoguerra su precisi canoni atlantistici, quelli derivanti dallo schema della Guerra Fredda, non rinunciando però ad un certo margine di autonomia: questo valeva sui fronti della costruzione di un’Europa soggetto autonomo oltre che alleato degli Usa, dei rapporti con la sponda sud del Mediterraneo, degli scambi con l’allora Unione Sovietica pur nell’assoluta fedeltà Nato.
Questa autonomia della politica di allora fu strumentalmente considerata segno di una certa atavica ambiguità italiana: non era così. Era semmai un pragmatismo flessibile che collocava l’Italia nel giusto riquadro della storia ma rispettando il proprio ruolo e i propri interessi. Quando sullo scenario internazionale si è affacciato, all’alba della Terza (?) Repubblica, un governo guidato dalla leader di una formazione politica guardata con diffidenza per le sue radici storiche e per le sue posizioni «sovraniste», era grande l’attesa per quale sarebbe stata la linea di Giorgia Meloni.
La giovane premier si è però imposta da subito, nei confronti degli Usa di George Biden e degli alleati Nato, con una condotta lineare sulla guerra in Ucraina; e, rispetto all’Europa, con una collaborazione leale con la Commissione von der Leyen, sia pure dentro una rivendicazione di «maggiore rispetto» per l’Italia che però aveva ormai poco a che vedere con l’euroscetticismo della destra italiana degli anni passati.
La domanda che tutti si fanno è: ora che le elezioni di novembre negli Stati Uniti potrebbero determinare una svolta Oltreoceano, e riportare in auge Trump con le sue politiche, Giorgia Meloni potrebbe dover modificare la politica estera del suo governo riallineandosi al fronte «sovranista» e «trumpiano» europeo?

È una domanda del tutto logica tenendo anche conto del fatto che, alle spalle, Giorgia Meloni non ha solo l’atlantista-europeista moderato del Ppe Antonio Tajani, ma anche, nel territorio elettorale contiguo a FdI, quel Matteo Salvini che non perde occasione per dichiarare la propria vicinanza a Trump e per polemizzare, insieme a Marine Le Pen, con le politiche di Bruxelles.
A questa domanda qualcuno ha pensato di trovare una risposta nel momento in cui Meloni si è astenuta al Consiglio europeo sulla ricandidatura di Ursula von der Leyen e quando poi FdI le ha votato contro all’Europarlamento. Era il momento in cui la vittoria di Trump sembrava più a portata di mano di fronte ad un Biden declinante che ancora si opponeva a fare un passo indietro. Oggi le cose sono diverse e, con la candidatura di Kamala Harris, la partita negli Usa si è riaperta ma la nostra opinione è che la partita europea di Meloni ha una sua storia autonoma – con riflessi di politica Ue e italiana – e non deve essere connessa necessariamente a ciò che accade e accadrà a Washington.
Che tuttavia porrà Meloni di fronte ad una sfida importante: se vincerà Kamala Harris non ci sarà da modificare una virgola della nostra linea, per esempio sull’Ucraina e nemmeno sul Medio Oriente. Ma se dovesse tornare Trump, che farà Roma? Sarà quello il momento in cui su Palazzo Chigi arriveranno molte pressioni, italiane ed europee, per chiedere un cambio di strategia per esempio sugli aiuti a Kiev. Lì capiremo come i fondamentali della nostra politica estera si coniugheranno con la flessibilità della Prima Repubblica. Una bella sfida.
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