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La voce (bassa) del Leone di Venezia

Cristiano Bolla
La cerimonia di premiazione dell’82ª Mostra del Cinema è stata turbolenta e ha scontentato quasi tutti: ha vinto il film piccolo e innocuo di Jim Jarmusch, ma tutti si aspettavano la scelta politico-civile di «The Voice of Hind Rajab»
Ben Hania, regista di «The Voice of Hind Rajab» - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Ben Hania, regista di «The Voice of Hind Rajab» - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Nel cinema, come nell’arte in generale, il vero giudice è sempre il tempo. Solo il suo inesorabile scorrere può davvero far capire, a posteriori, quali sono le opere in grado di restare indelebili nella memoria e nel patrimonio artistico mondiale e quali invece sono destinate a essere poco più di un granello di sabbia nel deserto. Questione a volte di anni, altre di minuti o secondi. Dell’82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, per esempio, sembra già chiaro quale sia il film con la forza artistica, politica e sociale per sopravvivere alla conclusione della kermesse e quale invece difficilmente potrà essere protagonista al botteghino, nella stagione dei premi e persino del dibattito civile. Il Leone d’Oro, però, questa volta è andato al secondo.

La giuria guidata dal regista statunitense Alexander Payne ha scelto infatti di premiare con il massimo riconoscimento della Mostra il film «Father, Mother, Sister, Brother» di Jim Jarmusch, voce anti-convenzionale del cinema a stelle a strisce, ma si tratta comunque dell’ennesima volta in pochi anni in cui un presidente di giuria americano spinge per premiare un connazionale. Il film che verrà distribuito nelle sale da Lucky Red racchiude tre quadri familiari segnati da incomunicabilità emotiva (un genitore che ha poco in comune coi figli) o fisica (due fratelli alle prese con la morte dei genitori). È una storia piccola e intima, ma soprattutto innocua rispetto ai temi che hanno segnato questa edizione della Mostra del Cinema.

Una scena del film «The Voice of Hind Rajab»
Una scena del film «The Voice of Hind Rajab»

Sin dall’annuncio dei film selezionati nel Concorso ufficiale di quest’anno, infatti, è sembrato chiaro che «The Voice of Hind Rajab» fosse quello con tutte le carte in regola per uscire «vincitore» dalla kermesse, specie perché nel frattempo dentro e fuori la Mostra si sono moltiplicati appelli, lettere aperte, cortei e quant’altro dedicati alla questione palestinese. Il film diretto dalla tunisina Kaouther Ben Hania racconta la storia della morte di Hind Rajab, bimba di sei anni rimasta intrappolata in un’auto insieme ai corpi dei parenti morti durante un attacco dell’esercito israeliano nel quartiere di Tel al-Hawa, a Gaza, il 29 gennaio 2024. Attorno alla registrazione della sua chiamata alla Mezzaluna Rossa è stato realizzato un film che ricostruisce i tentativi di soccorso, ma non si tratta di una ricostruzione di pura finzione: in «The Voice of Hind Rajab» si sente la vera voce della bambina, si assiste cioè a una commistione tra realtà e finzione tanto unica nel suo genere quanto struggente.

Vincitore morale

Qualcuno ha criticato la scelta di ricorrere alla vera voce della bambina, altri la decisione di mettere un film del genere in concorso, ma una cosa è certa: «The Voice of Hind Rajab» è un film che trascende le normali regole del cinema. Poteva essere l’occasione, per la Biennale e il cinema in generale, di mettere da parte le ragioni puramente artistiche per rispondere a una chiamata alla responsabilità civile, per accendere tutti i riflettori possibili su un film che può essere tra i più importanti e significativi della nostra epoca. Ben Hania, invece, si deve «accontentare» del secondo premio, il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria, che aiuterà comunque la sua circuitazione internazionale ma non con la stessa forza di un Leone d’Oro. Non sfugge una certa amara ironia: nell’anno in cui pubblico e critica ha sentito la voce di una madre parlare alla figlia in punto di morte, si è preferito dare il primo premio ad altre coppie di genitori-figli alle prese però con problemi nettamente più circostanziali, comuni, banali. C’è chi l’ha definito un Coniglio d’Oro, più che un Leone, ed è difficile dargli torto.

Guillermo Del Toro - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Guillermo Del Toro - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

Tra i due film, quindi, non ci sono probabilmente dubbi su quale sopravviverà alla prova del tempo. Tuttavia, in questa Mostra del Cinema si sono visti anche altri film con la capacità di dialogare con il presente in maniera significativa e quello più clamorosamente ignorato è senza dubbio «A House of Dynamite» della regista premio Oscar Kathryn Bigelow: quasi due ore di tensione costante che raccontano dell’improvviso lancio di un missile nucleare diretto verso gli Stati Uniti, lanciato non si sa da chi o perché; una corsa contro il tempo per evitare il disastro e un focus sulle reazioni di chi sarebbe (sarà, secondo le previsioni più pessimistiche) chiamato a prendere decisioni sul da farsi. Uscirà su Netflix (come «Frankenstein» di Guillermo Del Toro e «Jay Kelly» con George Clooney) e non stupirebbe nessuno degli addetti ai lavori se fosse grande protagonista anche agli Oscar 2026. La guerra o meglio una proposta di pace è stata al centro anche di «Scarlet», anime del maestro giapponese Mamoru Hosoda presentato fuori concorso, a confermare che c’è un certo cinema che può (deve) affrontare le istanze del presente.

Di questa Mostra resteranno anche alcuni parallelismi tematici interessanti, come la riflessione della sconfitta come un processo di evoluzione naturale non più da affrontare come un’onta («The Smashing Machine», premiato con la Miglior regia a Benny Safdie, e «Il Maestro» con Pierfrancesco Favino, fuori concorso); il diverso approccio al mondo del lavoro (in «À pied d’œuvre» il protagonista sceglie il precariato per vivere il proprio sogno, in «No Other Choice» del coreano Park Chan-wook la sua perdita dà il via a una spirale nerissima); assieme a questi anche altri temi importanti quali il complottismo e le fake news («Bugonia» di Yorgos Lanthimos), il Movimento Me Too («After The Hunt» di Luca Guadagnino) e lo stato del cinema italiano («Un film fatto per Bene» di Franco Maresco). Tutte riflessioni a loro modo interessanti, ma mai come quest’anno si è persa l’occasione per andare oltre le ragioni del cinema come forma d’intrattenimento, per uscire da schemi critici predefiniti e rendere il Leone di Venezia un ruggito in grado di scuotere le coscienze. Ci penserà il tempo, forse.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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