La crisi economica infiamma il Kenya

Si dice Kenya, si legge Masai Mara. Il Paese del Corno d’Africa è conosciuto ai più per le sue riserve naturali. L’emozione di incontrare i big five (leone, elefante, rinoceronte, bufalo e leopardo) è uno dei motivi per cui si sceglie la vacanza africana.
Dal Masai Mara ci vogliono oltre quattro ore per raggiungere la capitale Nairobi. Bisogna proprio volerci andare. Nonostante sia tra le dieci maggiori città del continente africano, per i turisti rappresenta più un luogo di passaggio tra un safari e l’altro, in genere i tour operator non la propongono. Ma Nairobi è ben altro: un importante centro politico ed economico, una città cosmopolita, multiculturale, multireligiosa, sede di multinazionali, tra cui Citibank e Cocacola, grattacieli, alberghi e centri commerciali extra lusso.
Ma, vicino a lustrini e paillettes, c’è la vita vera. Nella capitale vivono cinque milioni e mezzo di persone, il 70% è in povertà; gente accatastata in baracche fatiscenti negli slum (baraccopoli). Si chiamano Mathare, Mitumba, Kibera, Korogocho, Kariobangi, e molti altri. C’è chi ne ha contati addirittura 110.
Youth converge at Nyayo Gardens in Nakuru in honour of Kenyans who died during anti-govt protests pic.twitter.com/1aDIDTDJJq
— NTV Kenya (@ntvkenya) July 28, 2024
Ne ho visti alcuni. Insediamenti sovraffollati, insicuri e malsani, dove le infrastrutture e i servizi alla persona sono totalmente insufficienti e dove la criminalità organizzata la fa da padrona. Ho visto la discarica di Dandora, che si allarga al ritmo di 850 tonnellate di rifiuti al giorno.
A Korogocho nel 2008, mi sconsigliarono perfino di scattare foto. Troppo rischioso. La violenza imperversava dopo che Raila Odinga (etnia Luo) aveva disconosciuto la vittoria alle presidenziali del 30 dicembre 2007 di Mwai Kibaki (etnia Kikuyu), accusandolo di brogli. All’epoca, i sostenitori degli schieramenti politici si erano divisi per lo più sulla base dell’appartenenza etnica, ed erano gli slum a essere infuocati.
Le proteste che da settimane stanno interessando il Paese sono, invece, di natura completamente diversa. «Non c’è nulla di etnico, solo rabbia sociale e sete di giustizia», dice padre Alex Zanotelli che nelle baroccopoli kenyane è vissuto dodici anni. Per il comboniano non c’è dubbio: «È il debito che va cancellato. I Paesi africani sono strozzati dalle nostre banche. Ma la remissione del debito dev’essere controllata affinché ne benefici la popolazione, non che il denaro finisca nelle tasche delle solite già ricche élite».
Il 35% della popolazione kenyana è composto da giovani tra i 15 e i 34 anni; il tasso di disoccupazione giovanile si aggira sul 67%. Non potevano certo stare a guardare quando, il 25 giugno scorso, il parlamento ha approvato la legge finanziaria 2024-2025. Poiché lo Stato è in forte deficit (pari al 68% del Pil, superiore al 55% raccomandato dalla Banca Mondiale), l’obiettivo era raccogliere 2,7 miliardi di dollari tramite tasse aggiuntive, su olio, pane e zucchero. Sui beni primari innanzitutto, ma anche sulle tasse universitarie, sulle transazioni online, su carburanti ed energia elettrica.
Tramite TikTok è iniziato a circolare l’hashtag «RejectFinance Bill2024» e migliaia di persone si sono riversate prima sulla Kenyatta Avenue e poi hanno raggiunto il Central Business District, il cuore della città dove hanno sede le principali attività amministrative e commerciali. Attorno alla piazza, la City Square, c’è il palazzo del parlamento, dove la folla è dilagata dopo aver forzato il cordone di protezione della polizia, riuscendo a darne alle fiamme una parte.
La reazione immediata è stata la repressione. E questo nonostante la Costituzione preveda il diritto di manifestazione. Da allora si contano almeno cinquanta morti. Amnesty International e la Kenya National Commission on Human Rights, inoltre, tengono alta l’attenzione sulle «decine di persone rapite o scomparse». In particolare, blogger e influencer, che sulle piattaforme social – fin dall’inizio principale mezzo di mobilitazione – si sono schierati a favore dei manifestanti.

Tutto già visto. Salvo qualche eccezione, chi sta al potere si comporta sempre allo stesso modo: quando la popolazione scende in piazza, anche se pacificamente, oltre alla polizia, si mette in campo l’esercito, per contrastare la «situazione di emergenza». Strano vedere l’esercito nelle strade di Nairobi. Da sempre roccaforte dell’Occidente, il Kenya non ha mai subito un colpo di Stato, e questo per l’Africa è significativo.
Ma il modus operandi è sempre quello. Prima i gas lacrimogeni, poi si dà l’ordine di sparare, poi, quando la folla non arretra e magari la comunità internazionale comincia a storcere il naso, si arriva a qualche compromesso o a qualche concessione. Le giustificazioni addotte sono sempre le stesse: infiltrazioni terroristiche fra i manifestanti, oppure presenza di forze esterne che manipolano la popolazione, soprattutto i giovani, per trascinare il Paese nel caos.
Vedendo che le proteste non si placavano, ma anzi, raggiungevano anche Mombasa, roccaforte dell’opposizione, con una mobilitazione capillare senza precedenti, Ruto ha deciso di non firmare la finanziaria e di licenziare quasi tutti i suoi ministri per formare un governo di larghe intese, che traghetti il Paese fino alle prossime elezioni. Il capo della polizia e il procuratore generale Justin Muturi sono stati sollevati dalle loro mansioni, e sono stati bloccati i fondi per l’ufficio della First Lady, Rachel.
Ma questo non è sufficiente per i manifestanti, che continuano nelle loro rivendicazioni, e che si battono anche contro la corruzione, il clientelismo, gli sfarzosi stili di vita dei politici e, al grido di #RutoMustGo, chiedono le dimissioni del presidente che non ha mantenuto le promesse elettorali di diminuire le disuguaglianze sociali e la disoccupazione. A fianco dei giovani anche la Conferenza Episcopale kenyota che, con un comunicato stampa, ha chiesto alla polizia di non sparare sui dimostranti, e al governo di supportare le loro richieste.
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