Italiani rassegnati e ascensore sociale bloccato

L’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi industrializzati per grado di mobilità sociale: è necessaria un’azione politica sul piano strutturale e su quello culturale
L'ascensore sociale è bloccato - Foto/Pexels
L'ascensore sociale è bloccato - Foto/Pexels
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Il persistente blocco della mobilità sociale ovvero della possibilità di migliorare nel corso della vita la propria condizione socioeconomica, è uno dei fenomeni più critici ma meno dibattuti che riguardano l’Italia contemporanea.

Solo un ragazzo su dieci tra quelli che vivono in famiglie della fascia di reddito più bassa sarà in grado di raggiungere nella sua vita una fascia di reddito più alta di quella dei genitori. Il confronto tra generazioni rivela la grande difficoltà a scrollarsi di dosso gli svantaggi di partenza anche quando vengono conseguiti un titolo di studio o una qualifica professionale che non sempre si traducono in adeguate posizioni lavorative e opportuni compensi.

Per contro la mobilità ascendente è davvero possibile solo per chi proviene da famiglie di classe medio-alta che massimizzano i vantaggi di partenza e le posizioni di rendita. Non affrontare le molteplici cause di questa impasse sociale significa evitare di comprendere che indicatori economici positivi non necessariamente riducono le disuguaglianze e generano opportunità per tutti.

Pur essendo vero che in alcune aree del Paese, in particolare in quelle urbane del nord, la mobilità sociale è resa meno complicata dalla presenza di maggiori opportunità nel campo dello studio e del lavoro è altrettanto comprovato che anche le regioni più avanzate, rispetto alle omologhe europee, possiedono un elevato grado di rigidità sociale. Il blocco della mobilità sociale è dovuto anche alla perdita della spinta che fino a pochi decenni fa potevano garantire fattori come l’istruzione, la formazione, l’impegno e la motivazione personale che vengono depotenziati dal persistente peso dell’origine sociale, per cui a parità di titolo di studio l’accesso ad alcune posizioni professionali è più facile per chi appartiene alle classi sociali medie o alte.

Reddito, ricchezza, relazioni sociali della famiglia d’origine continuano ad essere fattori predittivi che pesano come macigni sugli individui condizionando, in negativo e in positivo, il loro destino sociale. Un dato nuovo degli ultimi anni è il cambiamento dell’atteggiamento verso questo stato di fatto e le collegate disparità economiche strutturali. Sondaggi condotti in diverse nazioni hanno dimostrato che non esiste una relazione sistematica tra la disuguaglianza subìta (che è sempre meno oggetto di dibattito pubblico) e il desiderio di trasformazioni dell’assetto sociale in un senso più equo e redistributivo.

Ad esempio, l’analisi del voto nelle scorse elezioni politiche negli Stati Uniti ha dimostrato che gli elettori con reddito più basso solo in parte hanno espresso una preferenza politica per i candidati che avevano atteggiamenti critici nei confronti della disuguaglianza. Per contro una buona parte ha votato per candidati che giustificavano il sistema economico esistente e le sue disparità, così come per politiche neoliberiste ostili all’estensione del welfare.

Questa situazione è dovuta al radicamento dell’idea che la responsabilità per la condizione socioeconomica sia solo individuale e non sia una questione sociale dipendente dal malfunzionamento di alcuni meccanismi collettivi.

La collocazione dell’Italia agli ultimi posti tra i Paesi industrializzati per grado di mobilità sociale rende necessaria un’azione politica sul piano strutturale e su quello culturale per far ripartire l’ascensore sociale da cui dipende la possibilità di liberare un potenziale sociale ed economico per larga parte ancora inespresso.

Valerio Corradi, Docente di Sociologia, Università Cattolica di Brescia

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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