India-Pakistan, la crisi del Kashmir riaccende la tensione nucleare

Il 22 aprile scorso, un attentato esplosivo ha colpito un autobus turistico nei pressi di Pahalgam, nel Kashmir indiano, causando la morte di 28 civili e il ferimento di decine di persone. Il governo indiano ha immediatamente attribuito la responsabilità dell’attacco a un gruppo jihadista con base in Pakistan, ritenuto vicino a Jaish-e-Mohammed, gruppo terrorista islamista già coinvolto in azioni simili nel passato.
La reazione di Nuova Delhi è stata rapida ed energica: il 7 maggio, a due settimane dall’attentato, il primo ministro Narendra Modi ha ordinato una serie di attacchi aerei in territorio pakistano, presentandoli come operazioni chirurgiche contro infrastrutture terroristiche. Ma al di là della retorica ufficiale, che ha enfatizzato l’atto di difesa e la fermezza nazionale, è evidente che la risposta indiana ha finalità che trascendono la dimensione strettamente securitaria. Per comprendere la posta in gioco, occorre collocare questi eventi in un contesto politico e strategico più ampio, che riguarda sia le dinamiche interne all’India sia le tensioni strutturali del sistema regionale del sud dell’Asia.
Nazionalismo indiano
Dal 2014, anno della sua prima elezione, Narendra Modi ha sistematicamente costruito il suo potere su una combinazione di mobilitazione identitaria e centralizzazione autoritaria. Il nazionalismo hindu promosso dal Bharatiya Janata Party (BJP) - il partito di cui il primo ministro è espressione - si fonda sull’idea di un’India compatta, aggressiva verso i nemici interni ed esterni, e sempre pronta a reagire a minacce reali o percepite. In questo quadro, il Pakistan ha assunto il ruolo di «nemico esterno» ideale: uno Stato musulmano, accusato di sostenere il terrorismo e di opporsi alla sovranità indiana sul Kashmir, che può essere additato come fonte di insicurezza ogniqualvolta la leadership indiana abbia bisogno di rafforzare il consenso o distrarre l’opinione pubblica da questioni interne.
La crisi attuale non fa eccezione. Essa giunge in un momento particolarmente delicato per Modi: l’economia indiana mostra segnali di rallentamento, la disoccupazione giovanile è in crescita, le proteste contadine si sono riaccese in Punjab e Haryana, e il governo è sempre più criticato per la sua gestione autoritaria delle istituzioni democratiche, compresa la repressione della stampa indipendente. In questo contesto, la costruzione di una minaccia esistenziale e la conseguente risposta muscolare permettono al governo di recuperare centralità politica e di ridefinire il dibattito pubblico in chiave patriottica.
Non è la prima volta che si verifica questa dinamica. Nel 2019, un attentato suicida contro un convoglio paramilitare indiano a Pulwama scatenò una reazione militare pressoché identica, con raid aerei nella regione pakistana di Balakot e un’escalation verbale tra le due capitali. Anche allora, la crisi si sviluppò a ridosso delle elezioni generali, che Modi vinse con un margine più ampio proprio facendo leva sul sentimento nazionalista. La politica del BJP appare dunque costruita su una logica di tensione permanente, in cui ogni atto ostile - vero o presunto - da parte del Pakistan viene utilizzato per giustificare azioni dimostrative che rinforzano l’immagine di un’India forte e assertiva. Tuttavia, questa logica ha costi crescenti, sia sul piano della stabilità regionale che su quello delle norme internazionali.
Uno degli aspetti più preoccupanti dell’attuale crisi è la decisione unilaterale di Nuova Delhi di sospendere il Trattato delle Acque dell’Indo, firmato nel 1960 sotto l’egida della Banca Mondiale. Tale trattato, uno dei pochi accordi bilaterali rimasti in vigore anche durante le guerre tra India e Pakistan, regola la spartizione delle acque fluviali e costituisce un pilastro della sicurezza idrica pakistana.

La sua sospensione rappresenta un atto di grave provocazione e apre la strada a una forma di guerra non convenzionale fondata sul controllo delle risorse naturali. In un Pakistan già colpito dalla crisi climatica, dalla scarsità idrica e da una profonda instabilità politica interna, la minaccia di vedere ridotto l’accesso alle acque dell’Indo potrebbe generare gravi conseguenze sociali e alimentare nuove forme di radicalizzazione. Inoltre, la mossa dell’India mina la credibilità degli impegni internazionali in materia di cooperazione transfrontaliera e solleva interrogativi sulla legalità e la sostenibilità della politica estera di Modi.
Orizzonte atomico
Dal punto di vista regionale, la nuova crisi rischia di compromettere definitivamente le già fragili possibilità di dialogo tra i due paesi. Dal 2016 non esistono canali diplomatici bilaterali pienamente operativi, e le comunicazioni tra i governi avvengono quasi esclusivamente tramite dichiarazioni pubbliche o attraverso intermediari come gli Emirati Arabi Uniti o la Cina. In assenza di un meccanismo credibile di gestione del conflitto, ogni incidente può degenerare rapidamente, soprattutto considerando che entrambi gli Stati possiedono armi nucleari tattiche e strategiche, e che la dottrina militare indiana ha ormai abbandonato la postura della «no first use» in favore di una maggiore ambiguità deterrente. Il rischio di escalation accidentale è dunque concreto, e l’attuale crisi potrebbe costituire il banco di prova più pericoloso degli ultimi vent’anni.
La reazione internazionale a questa situazione appare al momento blanda e contraddittoria. Gli Stati Uniti hanno invitato alla calma, ma si sono ben guardati dal condannare le azioni di Nuova Delhi, che considerano un alleato fondamentale nel contenimento della Cina. L’Ue ha espresso «grave preoccupazione», ma senza proporre alcuna iniziativa diplomatica concreta.
Persino la Cina, pur essendo alleata del Pakistan, si è limitata a esortare alla de-escalation. Questo silenzio generalizzato riflette un ordine internazionale sempre più sbilanciato, in cui le violazioni del diritto da parte di alleati strategici vengono ignorate o minimizzate. In tale contesto, l’India si percepisce libera di agire secondo una logica di potenza regionale, con scarsa attenzione per il diritto internazionale o per la sicurezza collettiva.
In definitiva, l’attuale crisi tra India e Pakistan non è solo un conflitto tra due Stati rivali, ma il sintomo di una trasformazione più ampia e profonda della politica sudasiatica. L’India di Modi non è più semplicemente una democrazia imperfetta: è una potenza emergente che utilizza strumenti autoritari e nazionalisti per consolidare il potere interno e affermare una propria visione strategica nello scacchiere asiatico. In questa visione, la pace con il Pakistan non è una priorità, ma un ostacolo a una narrazione politica che si nutre di ostilità, vittimismo e rivendicazione muscolare. Il fatto che tutto ciò avvenga nel silenzio - o addirittura con il tacito consenso - dei principali attori globali, costituisce un fallimento grave dell’ordine internazionale. Se non si interverrà con strumenti diplomatici credibili, vincolanti e multilaterali, la crisi attuale rischia di diventare non un’eccezione, ma la nuova norma nelle relazioni tra India e Pakistan. E in un contesto nucleare, tale «normalizzazione del conflitto» non può che condurre a un futuro segnato dall’instabilità permanente, quando non dalla catastrofe.
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