Il 4 novembre al tempo dell’«Armatevi e partite»

La giornata dedicata alle Forze armate e all’Unità nazionale è occasione per riflettere: in Italia l’approccio e l’atteggiamento nei confronti del ruolo dei militari presentano un mix di caratteristiche contraddittorie
Mattarella e Crosetto a Roma per le celebrazioni del 4 novembre - Foto Ansa/Fabio Frustaci © www.giornaledibrescia.it
Mattarella e Crosetto a Roma per le celebrazioni del 4 novembre - Foto Ansa/Fabio Frustaci © www.giornaledibrescia.it
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Le celebrazioni sono sempre momenti di riflessione. Per i contenuti che ricordano, commemorano e veicolano. Ma anche, sempre di più nell’epoca, incommensurabilmente differente dal Novecento, in cui viviamo, perché inducono appunto a domandarsi e a cercare di riflettere intorno ai significati che continuano a trasportare e al consenso che possono riscuotere presso un’opinione pubblica radicalmente diversa da quella della modernità e sprofondata nella condizione di inquilina di una «post-sfera pubblica».

Sono interrogativi da porsi anche in occasione del 4 novembre, ricorrenza fortissimamente novecentesca, quella Giornata dell’Unità nazionale e delle forze armate che celebra, infatti, dall’origine la vittoria italiana sull’impero austroungarico nella Prima guerra mondiale, da cui derivò l’annessione delle terre irredente del Triveneto, e il completamento del processo di unificazione. È la commemorazione in cui la bandiera nazionale e quella europea sventolano da tutti gli edifici pubblici e il Presidente della Repubblica si reca a rendere omaggio al Milite ignoto sull’Altare della Patria.

Simboli ed eventi che, spesso, poco o nulla (malauguratamente) dicono alle giovani generazioni, e la cui memoria iniziale risulta smarrita anche presso componenti significative di quelle precedenti. Mentre gli equivalenti della festa delle forze armate, declinati all’insegna delle specificità della loro storia nazionale, vengono sentiti in maniera molto più netta e immediata da parecchi altri Paesi, a partire da quelli che rivendicano una tradizione di potenze militari, dagli Stati Uniti alla Cina e alla Russia. Anche se quest’ultima, al netto del possesso dell’arma atomica, lo è meno di quanto vogliono simulare agli occhi del mondo le impettite parate che si svolgono sul proscenio della Piazza Rossa. E viene da aggiungere al riguardo che se, all’indomani del crollo dell’Urss, l’Ucraina non avesse conferito fiduciosamente «in custodia» a Mosca le sue testate nucleari, assai verosimilmente non sarebbe stata invasa dalla vicina geneticamente imperialista.

E ciò si verifica anche in Paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, dove – rispetto all’Italia – settori più ampi delle opinioni pubbliche tendono a identificarsi con la propria nazione e, dunque, con le forze armate (certo, in alcuni casi, con qualche inaccettabile nostalgia verso le lunghe stagioni degli imperi coloniali). Da noi, molto più che altrove per l’appunto, l’approccio e l’atteggiamento nei confronti del ruolo delle forze armate presentano un mix di caratteristiche contraddittorie e di alcuni elementi di vera e propria volubilità.

L'Altare della Patria
L'Altare della Patria

Tanti italiani, scorrendo le rilevazioni di opinione e i sondaggi, non sono disposti a mandare soldati tricolori in scenari di guerra come l’Ucraina, mentre altri risultano orgogliosi delle operazioni di peace-keeping e peace-enforcement in cui proprio i nostri connazionali spesso si distinguono venendo apprezzati a livello internazionale (ed è precisamente questo uno degli ambiti di azione più rilevanti, da qualche tempo a questa parte, per eserciti composti esclusivamente di professionisti). Mentre la politica in carenza di idee, ciclicamente, ripropone il tema di un ritorno alla «ferma» e alla «naja» per ragioni «disciplinari e pedagogiche» – una visione che, in maniera siffatta, ha poco significato, sebbene una riflessione di carattere più generale sull’esigenza di strutturazione dei più giovani sarebbe effettivamente utile –, emerge tra le righe un aspetto «arcitaliano». Ovvero la propensione a scaricare i costi e le responsabilità sugli altri, simulando per giunta un «pacifintismo» assai strumentale.

E, invece, oggi l’esigenza indifferibile di realizzare una forte difesa europea dovrebbe apparire palese. Certamente, lo scambio armi contro ospedali (della serie «aut-aut») non può darsi. Ma discutere nel merito e attrezzarsi con le dovute tecnologie militari per la sicurezza (e la cybersicurezza) dovrebbe riscuotere un consenso bipartisan. Eppure, ancora una volta, non è così: «armatevi (voialtri) e partite», giustappunto...

Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, Università di Modena e Reggio Emilia

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